FINCHERIANA 3
DAVID FINCHER ovvero LA SUPERFICIE “PROFONDA” DEL CINEMA parte 3.
“La parvenza, con il suo luccichio, rappresenta un potere reale, alla cui luce artificiale la realtà sparisce.
Resta una superficie scintillante.
Si dovrebbero vedere i film […] solo in copie di nitrato.
Esse hanno bisogno dell’argento.”
Pag 126, Frieda Grafe, Luce Negli occhi colori nella mente Scritti sul cinema 1961-2000, Cineteca di Bologna/Edizioni le Mani, 2002.
Negazione (!?) della superficie.
Zodiac.
Anno 2007.
Con Zodiac tutto sembra cambiare.
E per tutto si intenda proprio ‘Tutto’.
Cambia la casa produttrice che diventa la Warner Bros associata con la Paramount invece che l’abituale 20 Century Fox, produttrice praticamente di quasi la totalità dei film di Fincher.
Il parziale insuccesso di Panic Room, o almeno le entrate sotto le aspettative, possono essere una motivazione più che plausibile per il cambio di produzione.
Si pensi che dopo Fight Club, il regista venne osannato per tutta Hollywood e non solo, come innovatore del mezzo visivo e come regista “oltre”, al pari, per un brevissimo periodo di tempo a quel Tarsem Singh regista di videoclip dei R.e.m (su tutti ‘Losing my religion’) ed autore della bella e sottovalutata pellicola The Cell.
Pensare che Fight Club da grandissimo successo quale fu, in realtà non venne prodotto con il massimo dispendio di mezzi possibile, anzi, la produzione lo tenne piuttosto ‘in sordina’.
Furono la Fox 2000 pictures (una branca della 20 Century Fox) e la Regency Enterprises a credere nella pellicola, insieme alla Linsom Film.
Forse, con il senno di poi, davvero un po’ pochino per un film che ha cambiato il modo di fare cinema moderno.
Con Zodiac, sembra accadere una sorta di ‘anno zero’ per Fincher.
Cambiano gli attori, o meglio, la tipologia di attori che erano sempre stati presi nelle pellicole di Fincher, questa volta la scelta pare quasi più azzardata, coraggiosa, a basso budget, dovuto a Larry Mayfields, capo del casting.
Rivediamo proprio qui, dopo anni di scomparsa dagli schermi, Robert Downey Jr. che inizierà grazie a questa pellicola una lenta ma solida risalita coronata dal ruolo di Tony Stark nel film Iron Man, uno dei migliori attori della generazione perduta anni 80’/ 90’.
Rivediamo inoltre Jack Gyllhenhal, dritto dal capolavoro di Robert Kelly Donnie Darko, per molti ma non per tutti, attore proveniente anche da Il giorno Dopo e I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee, queste, invece, pellicole per tutti.
Attore capace e stralunato, non ancora nel gotha degli attori “conosciuti”, con la capacità/fortuna di esserci nei film interessanti.
Inoltre, da non dimenticare, è presente quell’animale da palcoscenico più sottovalutato degli ultimi anni, quel Mark Ruffalo che tanto ha dato al cinema “indie” di questi ultimi anni.Cambia la regia, la direzione delle luci, il montaggio.
Cambiano tutti questi elementi, in una volta sola, della regia, ne riparleremo dopo, è formata da piani medio/lunghi essenzialmente, cosa mai successa in Fincher, il gioco di luci c’è, ma è molto più ricercato, vi sono delle inquadrature nerissime in cui l’oscurità più totale la fa da padrona, senza riflessi, senza nulla, il montaggio infine è ampliamente descrittivo ed ha l’andamento pacato rilassato ed eminentemente narrativo che non ci si aspetterebbe.
La storia è tratta dalle vicende di cronaca del serial killer autoproclamatosi ‘zodiac’, che per tutti gli anni 60’/70’ tenne banco negli Stati Uniti e non riuscì mai ad essere risolta ufficialmente.
Il direttore della fotografia Harris Savides cerca di mantenersi su toni scuri e neri nelle notti degli anni 60’, e cerca, con notevole successo, di mantenersi su toni pacati e chiari, negli interni (degli appartamenti, della redazione giornalistica) dove il color “legno chiaro”, che fa molto “nostalgia” e “old fashion” prende il soppravvento.
I Fasci di luce, anche qui, possono essere divisi, principalmente, in due tronconi: fasci di luce sul buio e fasci di luce su ambienti già illuminati.
La prima parte la si vede nelle scene notturne, per esempio, nella sequenza meravigliosamente realizzata, dove due ragazzi vengono freddati dalla mano di Zodiac che spara ripetutamente attraverso i finestrini aperti della macchina parcheggiata, intanto le luci dei fari della macchina dell’assassino, sita proprio dietro l’altra macchina, ne illuminano asimmetricamente e grottescamente, l’interno dell’abitacolo.
La seconda parte la si vede negli interni, per esempio nella ben congegnata messa in scena di quando il vignettista và a trovare il giornalista interpretato da Downey Jr.
La casa è in subbuglio, degradata, le enormi finestre hanno le saracinesche abbassate, ma è pieno giorno, e non riescono ad impedire che gli innumerevoli fasci di luce, illuminino fievolmente l’interno della casa.
Con tutti questi elementi descrittivi la regia non poteva che seguire un percorso a sua volta descrittivo, di indagine, che ben si sposasse con la sceneggiatura particolareggiata di James Vanderbilt.
Per la prima volta in Fincher assistiamo ad un inizio “lento”, di concezione eminentemente “classica”, un inizio che respira prendendosi il suo tempo, quel tempo di una notte degli anni ‘60 in cui due giovani possono morire per mano di un pazzo omicida autoproclamatosi Zodiac.
Un medio/lungo piano sequenza ripreso al ralenty dal finestrino di una macchina, riprende le strade di un quartiere residenziale degli anni 60’in piena festa dell’indipendenza, con fuochi d’artificio che scoppiano e luccichii che si infrangono sui muri delle case.
Soprattutto, la regia prende le distanze, stavolta non ci sono più primi piani o campi medi nelle scene che contano, ci sono solo piani lunghi che creano “distanza” dallo spettatore, come il piano sequenza dell’apertura del film, o nelle scene di uccisione delle vittime, mai in primo piano, la cinecamera vola lontana, estatica.
Già l’apertura, prima dei titoli di testa del film, è un lento volo dall’alto, la città è in festa, si vedono esplodere i fuochi d’artificio al ralenty sopra i tetti delle case, delle persone inermi.
Non ci sono superfici da riprendere in questo caso, nessuna superficie sulla quale “inabissarsi” come abitudine del regista, la profondità è già data, dalla cronaca, dal tempo ormai passato inesorabilmente.
Una distanza che potrebbe essere benissimo “distanza critica” dai fatti realmente accaduti, per rispetto, per etica professionale ed umana.
Una distanza, che a ben guardare non è altro che presa di coscienza: negare qualcosa è darne per assodato che quel qualcosa, e tutto quello che ne consegue, esiste eccome.
Lo schermo in questa pellicola, spesso e volentieri, inquadra oggetti, persone, costruzioni, animali nello stesso modo: da distante, come fossero puntini semoventi senza scopo né importanza su una superficie.
La superficie del cinema, della cronaca e dell’esistenza.
Fine Terza Superficie.
Davide Tarò