FINCHERIANA Parte 1

DAVID FINCHER ovvero LA SUPERFICIE “PROFONDA” DEL CINEMA.

“La parvenza, con il suo luccichio, rappresenta un potere reale, alla cui luce artificiale la realtà sparisce.
Resta una superficie scintillante.
Si dovrebbero vedere i film […] solo in copie di nitrato.
Esse hanno bisogno dell’argento.”

Pag 126, Frieda Grafe, Luce Negli occhi colori nella mente Scritti sul cinema 1961-2000, Cineteca di Bologna/Edizioni le Mani, 2002.

David Fincher proviene dal mondo del videoclip musicale, e non lo ha mai negato con il lavoro successivo, neppure una volta.
Detto più chiaramente: l’autore è riuscito a tessere una sua poetica e ossessione per le superfici, siano essi volti in primo piano degli attori, siano mura o strutture e cose riflettenti, riuscendo a raggiungere una profondità di “forma” non indifferente, profondità che scivola nella etica cinematografica, che potremmo comunemente chiamare anche “contenuti”.
Innanzitutto, per addentrarsi più in profondità nel modo di fare cinema di Fincher, forse, è necessario porre l’attenzione essenzialmente su cinque modi di intendere “superficie cinematografica”.

Eccovi il primo:

Superficie come creatrice di un look, di una moda e di un modo di fare messa in scena:Alien 3, The Game, Seven.

Con Alien 3, letto “Cube”, al cubo, già fashion-futurista di suo, Fincher probabilmente filma il suo film più riuscito, perfettamente bilanciato come forma e contenuti.
Qui, la prima grande (?) novità è la rasatura dei capelli di Ellen Ripley/Sigourney Weaver, senza compromessi, rapata a zero, superficie riflettente, legata alla realtà, alla lucida disperazione, al sacrificio, alla carne sudata traslucida e all’azione.

Il soggetto di questa pellicola fu di Vincent Ward, già sfortunato e barocco regista di film quali Navigator e Al di là dei sogni con un bravo Robin Williams.
Ridimensionata di molto nei contenuti e negli scenari, la storia permette ad un giovane e ancora sconosciuto Fincher di avere mano libera sulla atmosfera ed il look gelido, mortuario e sacrale della pellicola.

La fotografia di Alex Thompson farà un servizio alla regia del giovane Fincher come nessuno farà più, neanche il pur bravo ed incisivo Darius Khondji per Seven.
I corpi della messa in scena si aggirano con riflessi sulla pelle sudata, sui vestiti, sull’Alieno composto di carne lucida come il latex, che lentamente fuoriesce da dietro delle tendine di un’infermeria.
Luci al neon, fredde, impietose, esaminatrici sul povero corpicino martoriato/aperto della piccola Newt, su una lastra glaciale, lucida, di obitorio.
Al cinema, mal si addiceva, o meglio, era più rara del liocorno leggendario una concezione degli spazi scenici così “al neon”, trasandata, fatiscente e meravigliosamente fascinosa, come la pelle ed il sudore di Ripley, mai messi così in primo piano, più per una concezione di “fashion malato/sofferente” che per una vera esigenza di sceneggiatura, ma che porta a un significato, questo si, ben preciso, l’intera pellicola .

Una estetica che non si discosta di molto da quella sado-maso o bondage, talvolta prodromo di un certo tipo di arte “videoclippara”, ma anzi, da cui trae continuamente nuova linfa vitale e significato.
Il montaggio di Terry Rowlings, poi, riesce a trascendere lo spazio e il tempo, la forma e il messaggio, con una scena che ricorda da vicino, per potenza di visione e profondità, quella del Padrino di Francis Ford Coppola.
Nella scena in questione, in Alien 3, vengono messi a raffronto, in una empia, sacrale comunanza visivo/sonora, il funerale di un uomo e la nascita dell’Alieno.

Una voce over recita l’omelia funeraria, un corpo ormai privo di vita è avvolto in un bozzolo, che viene lentamente fatto cadere nella lava ardente di un Altoforno, intanto, le inquadrature vengono frammentate e inframmezzate con altre in cui si vede l’ultima agonia di un cane, dal cui corpo sta per fuoriuscire il bozzolo dell’alieno, ma il tutto viene tenuto insieme dal filo rosso della voce over che continua a recitare l’omelia di una speranza per una vita eterna e senza dolore.

Proprio sulla parola “dolore”, il bozzolo che una volta era il corpo vivente di un uomo, viene inghiottito nella fornace ed una lenta dissolvenza incrociata fa apparire gradualmente sulla stessa inquadratura, lo sterno del cane in primo piano, che esplode facendo fuoriuscire il bozzolo con la testa tozza dell’Alieno.
Superficie solida, lucida, proteiforme.

Con The Game, Fincher, pur non raggiungendo la magnifica sintesi di Alien 3, radica la sua tecnica e la sua visione sino all’inverosimile, riuscendo a trovare un humus omogeneo e granitico nel suo modo singolare di fare cinema.

Il labirinto di oggetti che il personaggio di Michael Douglas si ritrova a dover percorrere, in cui si perde, sono oggetti con una inquietante armonia di forme, anche il più, apparentemente, innocuo e tralasciabile ha una sua intima motivazione visivo -sonora, anche il più inquietante meccanismo di un giocattolo dalla faccia ridente/sghemba di un pagliaccio, forse.

Soprattutto quest’ultimo.

Labirinto anche nella concezione di sceneggiatura, di trama, un insieme di meccanismi, proprio come il giocattolo dalla faccia di pagliaccio, un meccanismo ben lucido ed armonioso, messo in risalto, messo in vista, come l’intera messa in scena Fincheriana fa con gli oggetti, gli attori e lo spazio scenico.
Una messa in scena, ben in vista, sotto i riflettori ovviamente di color “al neon”, che nel disvelamento graduale agli occhi dello spettatore, trova la sua bellezza cinematografica ed intima essenza estetico/visiva.

Il cinema di Fincher, praticamente.

Con Seven, l’anno di grazia è il 1995, e più nulla sarà lo stesso nel fashion cinematografico del noir-poliziesco, ed oltre.
Sarà per l’aiuto del direttore della fotografia Darius Khondji, nera, ieratica ed estatica, che nasconde/mostra opportunamente, lasciandosi penetrare lentamente, come un liquido oleoso denso ma con una superficie meravigliosamente lucida.

Sarà per l’eccellente montatore Richard Francis-Bruce, che confezionerà, con gli effetti sonori e le musiche di un Howard Shore mai così divinamente frammentario e sincopato, un incipit/i titoli della pellicola, unico nel suo genere, e mai visto sino ad allora fatto in quella maniera.

Poi, con il rinascimento delle serie televisive, dieci anni dopo, questo modo di fare “Incipit/titoli di testa” fu saccheggiato a piene mani da titoli, tra i tanti, quali, il pionieristico, coraggioso e “troppo avanti per la televisione” Millennium di Chris Carter del 1996 e i suoi prodromi più posticci e meno estremi quali Csi, Profiler, Nip/Tuck, Crossing Jordan e tantissimi altri ancora.
L’incipit della pellicola si sofferma, analizzando, fotografando come dei referti medici della scientifica, oggetti, fotografie sfuocate, dettagli di siringhe che inoculano, in provette trasparenti, liquidi troppo scuri, con i titoli dei credits che compaiono e scompaiono come fotografie sfocate.
La scena della biblioteca pubblica, con il personaggio di Morgan Freeman che vaga tra i corridoi scuri e deserti pieni di libri impilati, è qualcosa di fatidico nella cinematografia di Fincher.
Il vecchio poliziotto in pensione, cerca di trovare dettagli per l’indagine, l’ultima, che gli è stata affibbiata, in luoghi dove, in genere, i poliziotti, e certa cultura middle – class, non va a cercare mai: in biblioteca.

Quando il vecchio poliziotto entra, pensoso, nell’enorme e deserto edificio, sopra di lui, in una specie di cabina stanno due o tre rozze e cafone guardie/inservienti che stanno parlando di donne, calcio e tutto fuorché occuparsi del loro lavoro, accentano con ironia il vecchio poliziotto che chiede di poter leggere dei volumi, intanto dalla radio che i tipacci hanno nel gabbiotto parte una melodia dalla suite per orchestra n°3 di Johann Sebastian Bach.
Essa ci accompagnerà e diventerà extradiegetica per tutta la durata dell’inquadratura poetica e fatidica, una delle più belle degli ultimi anni cinematografici.
Con il commento della melodia, il poliziotto cammina lentamente, sperso, tra gli scaffali polverosi pieni di libri, cercando cautamente un qualche indizio, un qualche barlume di conoscenza, perché l’ignavia è peccato.

La camminata, spersa in un labirinto di oggetti, torna, soprattutto da The Game, ma quello che sorprende registicamente, è la “sottovalutazione” della poesia del magico momento che in un’altra pellicola più classica non ci sarebbe assolutamente stata, difatti, la musica “aulica” non cade dall’alto extra diegeticamente, ma galleggia dall’inquadratura, come uno stronzo galleggia alacremente nella realtà della scena, dove viene diffusa per tutta la biblioteca piuttosto casualmente proprio dalla radio che prima trasmetteva immondizia radiofonica e pubblicità che i tre buzzurri ascoltavano, creando una sensazione globale di ironia e “understatement” diffuso.

Fine prima superficie (continua)

Davide Tarò.

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