Rabbit Hole
Quello dei Corbett è un matrimonio in stallo dopo la prematura scomparsa del piccolo Danny, investito davanti al vialetto di casa mentre rincorreva il loro cane: la coppia si divide in particolare sul percorso da seguire per cercare di elaborare il lutto che li sta divorando.
Lei è Becca (Nicole Kidman), disillusa e realista non riesce a sopportare le impacciate attenzioni di chi le sta accanto e cerca di aiutarla, rifiuta di rifugiarsi in dio o nella famiglia, annientata da un dolore inespresso tenta di costruire un dialogo con Jason (Miles Teller), il ragazzo involontariamente responsabile della morte di suo figlio; suo marito Howie (Aaron Eckhart) è invece un uomo che ha bisogno di sviscerare il dramma attraverso il dialogo – lei gli rinfaccia di aver abbandonato anni prima gli studi in psicologia – e per il bene della coppia continua ad andare ad un inutile gruppo di sostegno anche quando sua moglie decide di non accompagnarlo più, scoprendo tuttavia che ciò di cui realmente ha bisogno è un po’ di evasione. Entrambi dovranno rivalutare le reciproche posizioni: a volte superare un trauma significa abbandonarsi al dolore e non avere timore di viverlo, per riuscire a sopportalo e gestirlo in futuro.
John Cameron Mitchell è un regista che ama parlare ai grandi sentimenti collettivi, i suoi film (Hedwig, Shortbus) prendono spunto dal dato individuale e lo elevano, forse ingenuamente ma senza supponenza, ad esperienza universale di condivisione e “compassione”, manifesti camp per un pubblico dalla spiccata ricettività emotiva. In Rabbit Hole tenta di lavorare su un terreno almeno in parte differente: adattando l’omonima opera teatrale di David Lindsay-Abaire, nella prima metà del film Mitchell (merito anche della bella fotografia di Frank G. DeMarco, tutta costruita sull’espressività degli antagonismi cromatici) riesce a gestire il difficile testo con una regia fresca e ricca di spunti. Come suggerisce la splendida locandina Rabbit Hole è un film completamente affidato ai suoi ottimi protagonisti: una rapida successione di pose divide il poster in frammenti che ritraggono tutte le gradazioni emotive del rapporto a due, lontani seppure fisicamente approssimati, separati da un male privato che dovranno imparare a condividere per sopravvivere come coppia. Nicole Kidman torna finalmente a “recitare”, facendosi perdonare anni spesi a scegliere pellicole mediocri e a farsi congelare i lineamenti nello studio del suo chirurgo estetico: in alcune sequenze la sua Becca raggiunge un lirismo di tale intensità drammatica, che la deformità estetizzante dei suoi connotati al botulino – così sfrontata nei primi piani – risulta quasi irritante. La diva australiana ha recentemente ammesso di aver abusato del bisturi in passato ma di esserne uscita, speriamo che questa raggiante performance le sia d’incoraggiamento per tornare anche ad essere l’incredibile professionista che abbiamo imparato a conoscere. Se la Kidman impera sul film, tuttavia non annienta le esecuzioni dei sui comprimari: Aaron Eckhart è sorprendentemente efficace nei panni di un marito distrutto dalla sua vulnerabilità al dolore e ci regala alcuni dei momenti più commoventi della pellicola; Dianne West (è Nat, madre di Becca) forse non è stata sfruttata a sufficienza, ma la classe con cui caratterizza nei particolari il suo ruolo è inconfondibile.
Nella seconda parte della pellicola la mostruosità delle star in campo divora il lavoro del cineasta, che non recupera il passo e sembra arretrare ed ammirare compiaciuto e un po’ fiaccamente la sintonia del suo cast corale, seppur immenso. Come un affresco dei sentimenti che rivela ogni sua sua pennellata, Rabbit Hole raggiunge il cuore dello spettatore ma non affonda completamente: forse ancora troppo debitore alla pièce da cui è tratto, è un dramma ben scritto e a tratti molto sferzante ma in cui Mitchell finisce per affidarsi al “facile” peso della tragedia narrata ed alle giganti interpretazioni dei suoi protagonisti, confezionando almeno in parte un artefatto dal sapore del potenziale inespresso.
Ma è pur sempre un ricco affresco, e vale la pena di goderne – anche solo per ammirare sopraffatti la Kidman e Eckhart che si rinfacciano i propri lividi sensi di colpa nel salotto di casa.
Massimo Pornale