127 Hours (127 Ore) [ anteprima ]
Tutti i film di Danny Boyle maturano da sempre lo stesso inventario cinematografico pulsante e adrenalinico costruito su scelte stilistiche ricorrenti e con esiti spesso discontinui, assuefacendoci col tempo agli arnesi distintivi del suo fare cinema: dal taglio caratterizzante di ogni singola inquadratura, a quel certo modo di intendere la drammaticità attraverso il montaggio, fino all’ossessiva accuratezza nelle selezioni musicali che accompagna ogni sua opera. 127 Hours è lo straordinario epitome di un’intera carriera e in questa logica n’è anche il suo capolavoro. Ancor di più se giustapposto alla più recente produzione del cineasta inglese, quel Slumdog Millionaire che gli sarà anche valso il suo primo Oscar ma che da queste parti non è mai stato deglutito completamente. Non mancano certo al suo ultimo lavoro molteplici ricorsi a quello stile insistentemente “pubblicitario” che patinava fin troppo l’acclamato predecessore, sebbene qui Boyle riesca finalmente a calibrare con minore spregiudicatezza certe tentazioni visionarie, al servizio della storia.
L’incredibile avventura di Aron Ralston (James Franco), rimasto intrappolato in un dirupo durante un’escursione solitaria tra i canyon dello Utah, che sopravvive più di cinque giorni senza cibo e con pochissima acqua cercando di trovare il coraggio per affrontare un gesto di estremo autolesionismo che gli consentirebbe la salvezza.
Una storia vera ed impressionante, che permette a Boyle di ancorare la sua mdp per buona parte del film al fondo della voragine in cui è incastrato il suo protagonista: 127 Hours è infatti indelebilmente costruito su James Franco, capace di instaurare un capillare canale di empatia con l’obiettivo mentre questo indaga ogni profilo del suo corpo alla ricerca di una via di fuga dalla tragedia.
Organicamente la pellicola si ramifica in tre quadri ben distinti: una parte introduttiva che cerca di delineare brevemente l’indole svincolata del suo protagonista, immortalandone le spericolate escursioni attraverso i dirupi dello Utah; l’ampia parte centrale del film è invece completamente dedicata all’orrore dell’intrappolamento, alternata solo ad alcuni onirici flahback sui ricordi di Ralston; il finale rispecchia stilisticamente il prologo, ribaltandone tuttavia in qualche modo il significato.
Per amplificarne la tesa claustrofobia le porzioni differiscono nettamente anche sul piano formale: nelle prime adrenaliniche sequenze Boyle si affida infatti quasi esclusivamente a split screen, camera a spalla e campi lunghi con panoramiche che restituiscono molto bene la sete di libertà che domina Aron nello spingersi aldilà di ogni limite. Da quando il suo braccio s’incastra tra le rocce di un canyon – non a caso il film inizia idealmente in questo momento, con la comparsa del titolo e lo sguardo pietrificato del suo protagonista – le intuizioni registiche si fanno più intime ed elaborate, l’inquadratura insiste sul primo o primissimo piano, i movimenti alternano impressioni onniscienti ad una specie di “pedinamento sul posto”, il ritmo è incalzante seppur dilatato. Ed è esattamente a questo punto che 127 Hours ti travolge, mentre sviluppa davanti ai tuoi occhi tutta l’ambizione di questo progetto: un film conficcato per quasi un’ora sul letto di un dirupo, edificato completamente sulla magnifica prestazione del suo protagonista e sulla forza drammatica delle immagini che lo compongono, capaci di intercalare senza difficoltà istanti di goliardia, lirismo e puro terrore.
Nonostante i difetti – nell’untuosa catarsi di un finale troppo d’ufficio per un film tratto da una storia vera – 127 Hours ammalia e rapisce fin dal suo folgorante incipit impedendo allo spettatore di distrarsi per un istante dallo schermo: è uno dei film migliori del 2010, probabilmente quello che più ho amato di Danny Trainspotting Boyle.
Massimo Pornale
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