L’ILLUSIONISTA

Illusioniste, Francia 2010, Animazione, Regia e sceneggiatura: Sylvain Chomet, da un soggetto originale di Jacques Tati, 90 minuti, distribuzione Italiana: Sacher Distribuzione.

Alla fine Sylvain ci è riuscito.
E’ riuscito a fare il film d’animazione definitivo sulle “origini”.

Origini della nostra civiltà economica e dell’animazione tout court: giapponese, thailandese, europea, americana.
Le origini di questo “genere” che poi tanto genere non è, ma che è proprio un altro media, Chomet ribadisce che le si possono e devono trovare nel cinema dei primordi, nel cinema muto, nel cinema “comico”.

Comica come poteva essere la malinconia di Charlie Chaplin del dopoguerra dove si veniva dalla fame, o quella esistenzialista di un Buster Keaton, oltre a quella appunto di inadeguatezza esistenziale di Jacques Tati.

Chomet lo aveva già disegnato forte e chiaro, non detto perché tutte le sue opere sono praticamente mute, infatti le poche volte che “parlano” i personaggi, dalle loro bocche semoventi fuoriescono volutamente più rumori gutturali incomprensibili o in un dialetto (ormai) perduto , come accadeva in Appuntamento a Belleville (Le triplettes de Bellville, nominato all’Oscar nel 2003) e soprattutto nel cortometraggio La vecchia signora e i piccioni (Le vieille dame et le Pigeon).
Chomet prende un vecchio soggetto di Jacques Tati e lo adatta e lo incarna come sempre avrebbe dovuto essere se il defunto artista avesse conosciuto l’Animazione.
La storia è un senso di colpa implacabile di un “padre” verso una seconda piccola figlia mai riconosciuta, ed avuta da un rapporto clandestino con una ballerina, e a questa dimenticata figlia dedicato ferocemente.

Il soggetto del film è la storia di due strade che si incrociano, è la storia di un amore impossibile, è la lettera d’amore di un padre ad una figlia, è il racconto di un’epoca che finisce e di un mondo destinato a sparire, è la storia di un viaggio verso la scoperta, come recita il flyer italiano del film.
Tati non ebbe mai la possibilità (e il coraggio) di girarlo, probabilmente quella era una storia troppo dolorosa, dovevano passare una cinquantina di anni perché un estraneo, facesse il più bel film di Tati, o meglio, uno dei più bei film di animazione.

L’animazione è fluida e poetica, non serve un fotorealismo estremo, lo ricorda e lo evoca come immagini lontane e malinconiche.
Il tratto è fortemente caraccolante, vignettistico, tutto fatto a mano, a parte gli sfondi, “mossi” con la Cgi.

Il luogo dove l’illusionista e la giovane ragazzina orfana a lui affezionatasi vanno, doveva essere nel soggetto originale la “magica” Praga.
Nel soggetto di Chomet diventa Edinburgo, mai così affascinante e magicamente immortale.

“La magia non esiste” scriverà il vecchio Illusionista senza più un lavoro, in una terribile lettera d’addio alla giovane che lo crede un mago.
L’implacabile vacuità e tangibilità delle cose materiali vince su tutti i fronti sulla magia dell’immaginazione, negli anni ’30 (epoca di mutamenti estremi, dalla morte dell’avanspettacolo e spettacoli di magia, al rock) come ora.

Perché fare opere come queste?

Perché proprio in animazione (genere ancora più “sfortunato” e “incompreso”)?

Guardando e vivendo questo capolavoro lo scoprirete sulla vostra pelle, senza scomodare Bazin e moltissima saggistica cinematografica preziosa quanto in questo momento inutile.
Ma come dicono i tristi e grassi vincitori in bigi paesi di un terzo mondo culturale che pensa di essere ancora produttivo, coloro che fanno l ‘economia liberale “redditizia” e “vitale” che ha distrutto il mondo: “Fatevi un panino con la Divina Commedia”

Fosse semplice così.

Non si vive di solo pane…

Davide Tarò.

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