PIEMONTE MOVIE 10° EDIZIONE 2010
Il decennale è qualcosa di importante, è un sancire perentorio di esistere, di esserci qui ed ora pronti ad incarnare nel bene e nel male un intero territorio, con le sue credenze, la sua geografia fisica e politica, i suoi rituali, la sua lingua, i suoi … volti, le sue storie.
Nato in quel di Moncalieri il 4 maggio 2000, “quando Piemonte Movie accese per la prima volta il proiettore e spense le luci in sala” dice Alessandro Gaido uno dei suoi fondatori, tra la biblioteca civica Arduino e il cinema King Kong Castello, ormai non più esistente, la cinematografia del territorio regionale, di quella terra con le sue antiche tradizioni ed il suo unico modo di essere, cominciava a trovare una compiuta e definitiva incarnazione.
Alessandro Gaido, Cristina Nebbia e Germano Longo furono i primi a buttarne giù la parte progettuale, il sostegno di Davide Larocca, della giornalista Roberta Pellegrini (con cui tra l’altro chi scrive collaborò per un periodo alla Gazzetta di Venaria), Maura Novelli e Roberta Ritrovato sono stati essenziali.
Storie della regione, del territorio, della terra, storie che in questa interessantissima edizione si sono chiamate The Stranger edition.
Il tema dello straniero, dell’estraneo dello sconosciuto, che può dipanarsi nel “genere” e nel “fantastico” di opere in cui ha partecipato il grande George Ardisson (Giorgio Ardisson) poliedrico attore nato a Torino e comparso in b-movies a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, in pellicole quali La villa della anime maledette e Nebuneff- Il grande custode dittico horror ambientato nella “sua” città di Carlo Ausino, I lunghi capelli della morte di Antonio Margheriti con Barbara Steele la regina dell’horror all’italiana di quegli anni, Django sfida Sartana di Pasquale Squitieri, L’ultimo dei vichinghi di Giacomo Gentilomo, Zorro alla corte di spagna di Luigi Capuano con il grande Alberto Lupo e molti altri.
Giovedì 4 marzo proprio nel senso dello straniero, in questo caso geografico, ha avuto luogo al Cinema Massimo, sala del Museo nazionale del cinema di Torino, la proiezione del documentario Magdalena di Alejandro de la Fuente (già co-autore della sceneggiatura del documentario Indagine su un cittadino di nome Volonté trasmesso da Sky Cinema Classics) alla presenza di una folta delegazione romena immigrata a Torino e di Ettore Scola, Diego Novelli, Alessandra Comazzi e Sergio Miravalle, oltre che di De la Fuente stesso.
Il documentario, forte atto d’accusa e amaro ritratto di extracomunitari reclutati e sfruttati dal nord Italia opulento, pur ispirandosi all’ormai leggendario Trevico-Torino di Ettore Scola, bel documentario del 1973 ormai quasi dimenticato e mai più trasmesso da alcuna rete televisiva e satellitare né disponibile alla vendita in dvd, non riesce a essere abbastanza incisivo e in parte rischia forse, involontariamente ed indirettamente, di cadere in alcuni antipatici stereotipi “di ritorno” sull’immigrazione del sud e sui piemontesi sfruttatori e razzisti, appesantito moltissimo dalla direzione univoca in cui andava la presentazione iniziale.
L’apparente intoccabile dicotomia piemontesi sfruttatori/immigrati sfruttati non è sempre vera fino in fondo e per ironia della sorte bastava guardare con un po’ d’attenzione il documentario stesso nella sequenza in cui Magdalena Lupu, l’eponima protagonista si addentra nell’indagine sulla morte bianca di Dani, romeno clandestino affogato nelle fogne della città di Torino nell’estate 2006.
La donna giornalista scopre che la ditta che aveva l’appalto dei lavori aveva un nome tutt’altro che piemontese, ma di netta ascendenza meridionale.
Ironia dei cognomi.
Allora forse questo bisognava dirlo con un poco più di forza, bisognava forse approfondire un poco quello che successe tra gli anni ’60 e ’70 a Torino, dove è pur vero che ci furono casi di razzismo nei confronti degli immigrati del sud, i cosiddetti “terroni”, ma è altrettanto vero che con altrettanta forza fu anche il contrario e riconoscere che quei cosiddetti “terroni” oggi hanno raggiunto posizioni di comando, posizioni imprenditoriali e sociali elevate, che permettono la sopraffazione di chi è diverso e più debole ora, mentre i torinesi e piemontesi sono una sparuta minoranza quasi estinta e che ora gli sfruttatori di romeni e di altri extracomunitari sembra proprio che siano coloro che erano immigrati anni prima arrivati socialmente, i cosiddetti “arricchiti” e non un generico “piemontese” che ormai non esiste più.
Bisognerebbe soltanto a volte senza falsi moralismi ricordare i cognomi, azione che fin dall’alba dei tempi ha sempre fatto paura ai potenti, o almeno questa è la visione personale di chi scrive, senza voler togliere nulla al valore umano del documentario.
Sempre nel nome di una “piemontesità” evocata quasi delicatamente ed involontariamente ‘in absentia’ ecco il cinema dei fratelli De Serio che ebbi il privilegio e la fortuna di intervistare nel 2001 proprio per la Gazzetta di Venaria.
Questi due fratelli gemelli che arrivano agguerriti e poetici come non mai dal quartiere Falchera del capoluogo piemontese (citato amorevolmente dal Ferrario di Dopo Mezzanotte) hanno fatto del loro cinema un percorso di incontri, di facce, di espressioni, di movenze, di rumori minimali e preziosi, il cinema stesso, i fratelli Dardenne erano all’epoca della prima intervista i loro fari, e si vedeva, insieme al regista portoghese Joao César Monteiro oggetto della tesi di laurea di uno dei due.
L’incontro avvenuto martedì 9 marzo alla sala 3 del Cinema Massimo alla presenza degli autori è stato interessante, non “gessato”, spontaneo, simpatico e vivido, alla fine della proiezione delle loro opere, per volere dei due cineasti, si proietta una copia rara del film del 1992 di Monteiro, in selezione ufficiale a Venezia nel 1992, L’Ultimo tuffo.
Cortometraggi quali Il Fiore (2000), in cui un bambino per portare un fiore sulla tomba della nonna incontra molti impedimenti e Poche cose (2000) in cui si racconta la giornata di un uomo anziano (il nonno dei due registi) con i rumori immanenti dei suoni di tutto l’ambiente che gli sta attorno, danno l’idea precisa della rara poesia, della delicatezza che sfiora così raramente l’essenza del cinema, quello con la C maiuscola.
Negli altri cortometraggi, ferma restando la tecnica e la bravura, forse senza volerlo i due cineasti scivolano un po’ troppo nel “sociale” che stempera un certo tipo di poesia a loro innata, ma è una opinione personale dello scrivente e tale deve rimanere, piuttosto la speranza è quella che nell’imminente loro lungometraggio vengano riprese alcune direttive dei primi cortometraggi.
Un in bocca al lupo di tutto cuore a questi due grandi cineasti cantori delle piccole cose.
Un pezzo di vecchia ed intramontabile “piemontesità” mi si consenta di ricordarla nella figura del doppiatore Mauro Bosco, grande professionista presente martedì 9 marzo nella sala Fratelli Marx per l’omaggio che il festival ha dedicato all’anime co-prodotto dalla nostrana Rai e dalla Tokyo Movie Shinsha: Il Fiuto di Sherlock Holmes in cui collaborò fattivamente Hayao Miyazaki.
Il doppiatore dà la voce nella edizione italiana vista negli anni ’80 su RaiUno al professor Moriarty, donandogli scherzosamente un aplomb tutto torinese, valga ad esempio la mitica espressione: “Porca Menta!” urlata dalla diabolica nemesi del detective.
Serio e pacato professionista (sua è la voce anche del sig. Drummond di Il Mio Amico Arnold), con grazia ed eleganza d’antan ha raccontato qualche aneddoto della sala di montaggio al pubblico prima della proiezione dei quattro episodi in cui la regia di Miyazaki stesso è ufficialmente accreditata: La corona di Mazzarino, La piccola cliente, Il rapimento di Mrs.Hudson e Lo smeraldo Blu.
Un focus prezioso e particolare è stato dedicato alla figura di Bruno Boschetto, soprannominato l’artigiano del cinema, nato nel 1946 e residente tutt’ora nel quartiere Lucento (dove peraltro è nato anche chi scrive, mi si perdoni questo campanilismo “borghettaro”), è tutt’ora un grande collezionista di pellicole anche rarissime ( e da cui il Museo Nazionale del cinema attinge non raramente per proiezioni speciali), ma parte dal borgo, dalla periferia della città, dove negli anni ’70 i nuovi film che erano in centro arrivavano solo un anno dopo.
A 11 anni incontra Sabino Maffeo, operatore del cinema Lucento, allora di proprietà della Famiglia Ventavoli, propri lì comincia a fare l’operatore a sua volta, come aiuto proiezionista, per finire poi assunto qualche anno dopo nella casa di distribuzione Nip (sempre di Ventavoli).
Nel 1962 intanto compra una Elmo di fabbricazione giapponese e gira 13 mediometraggi in tutto.
Cronaca di un desiderio, Nessuno torna indietro, I fiori del male, Cara Via Pomba e Processo alla processione tutti proiettati durante il festival, cinema fatto di passione, tra adolescenti di borgata, avventura scevra da ogni anflatto romantico, e documentario delle storie del proprio quartiere.
Poi Bruno fece il proiezionista all’Onpa, una casa di riposo, lì compra film in 16 millimetri presi da ogni dove per rimpolparne la cineteca.
L’esercente al mitico Cinema Luce fece la storia della settima arte nel quartiere, dal 1975 al 1983 fa praticamente passare tutto quello che in periferia non sempre si riusciva a recuperare: Bruce Lee e i film di Hong Kong, Edvige Fenech, Mario Merola, poliziotteschi all’italiana, spaghetti western, Bud Spencer e Terence Hill e molto, molto altro ancora.
Quello che più colpisce nella attività e nella passione di Bruno Boschetto è il legame profondo con la sua terra, con Lucento, vivere insieme alla gente di borgata le emozioni del cinema che è e dovrebbe essere un’arte artigiana ancora di tutti quello che la vogliono vedere.
La collezione Boschetto è arrivata all’incirca a 5000 copie, per lo più in rarissimi 16 millimetri raccolti proprio in quegli anni ’70 così selvaggi, Lumières, Méliès, e molti introvabili del cinema muto, una passione che nasce nel cortile dell’oratorio, dove Bruno quando era bambino trovava fotogrammi di pellicola che l’operatore gettava come scarti, li raccoglieva e li guardava in controluce, verso il cielo.
La vera magia del cinema.
Grazie alle Teche Rai sono stati forniti al festival molti video, tra cui la serie in sei episodi Philo Vance, tratto dai romanzi di S.S. Van Dine e prodotta dal mitico centro di produzione Rai di Torino, venne trasmesso dal settembre 1974, tra gli interpreti vi era oltre Giorgio Albertazzi anche la brava Paola Quattrini per la regia di Marco Leto, l’operatore fu Ezio Torta.
Serial e sceneggiati ormai rarissimi nella televisione attuale.
A fronte di questa proiezione fa un po’ ridere tristemente ed infuriare di più la notizia risaputa ormai da mesi che vi è una volontà politica molto forte di chiudere il Centro Produzione di Torino ( e quelli decentrati di Napoli tra l’altro) per accentrare tutto a Roma e Milano, e lo “spostamento” tattico della Melevisione da Raitre (alla quale dava uno share invidiabile nella fascia pomeridiana) ad uno dei canali satellitari chiamato Raisat YoYo ne è una dimostrazione lampante.
La verità che non tutti sanno è che i canali digitali NON HANNO BUDGET o ne hanno di RIDICOLI, quindi è come chiedere direttamente di chiudere o quantomeno ridimensionare la Melevisione, prodotto nel bene e nel male completamente Torinese.
Quindi “cornuti e bastonati” si potrebbe dire, oltre ad essere stati la culla della televisione (e della radio) e del cinema, dulcis in fundo per colpa di politici che fanno solo gli interessi della capitale e della sede Mediaset e che non ci pensano neanche a difendere la professionalità locale, rischiamo di ritrovarci solo il tg3…
In compenso il Piemonte, grazie agli accordi del comune con la lungimirante FIlmcommission è una delle regioni dove si gira più cinema, fiction e pubblicità, lo dimostra la panoramica di pellicole che il festival presenta e che sono state girate solo nell’annata precedente a Torino e provincia quali la bella La Doppia Ora di Giuseppe Capotondi con Filippo Timi e Ksenya Rappoport, il sottovalutato La prima linea di Renato De Maria (regista già di Paz!) con Riccardo Scamarcio e Giovanna Mezzogiorno, il bello e coraggioso Imago Mortis di Stefano Bessoni, La cosa giusta di Marco Campogiani, Giallo? Di Antonio Capuano, Agli uomini piace uccidere di Pierfrancesco Laghi, La straniera di Marco Turco, Terra Madre di Ermanno Olmi, Questo piccolo grande amore di Riccardo Donna, Tutta colpa di giuda di Davide Ferrario, e lo stupendo Vincere di Marco Bellocchio, sempre con Filippo Timi che ormai si vede spesso girare a Torino e dintorni.
Negli omaggi e nei focus della kermesse, nel settore ‘Antropologia’ si può vedere citato il nome di Piercarlo Grimaldi, uno dei più grandi antropologi italiani, piemontese al quale dobbiamo molti studi sulla magia, sulle superstizioni e sui modi di vivere delle culture contadine della regione (ed oltre).
I contenuti del Festival sono stati strutturati in questo modo:
Spazio Piemonte: Concorso cortometraggi 2009
Panoramica Film: Lungometraggi realizzati in Piemonte 2009
Panoramica Doc: Documentari realizzati in Piemonte 2009
4 anteprime Piemonte Doc Film Fund
Area 31: Spazio dedicato al Centro di Produzione Rai di Torino
Omaggio a Mike Bongiorno
Omaggio a Philo Vance/Focus Timbuctù
Terre di cinema: Selezione dei festival piemontesi ed europei
Focus Romania/Focus Guido Hess Seborga
Omaggi: Alberto Signetto. Immagini e storie di un documentarista
Fratelli De Serio. Il futuro del cinema torinese
George Ardisson. Un attore oltre i B-Movies
Focus: Razza Operaia. L’Olivetti di Adriano
Animazione. Suoni e immagini del Piemonte
Bruno Boschetto. L’artigiano del proiettore
Gianni Rodari. Per un ritorno alla fantasia
I mestieri del cinema. Costumi e parole
Antropologia. Dalle Alpi alla Terra del Fuoco
Un Festival prezioso assolutamente da vedere e seguire, per discutere, vedere, provare, arrabbiarsi, gioire, amare, odiare e soprattutto conoscere il proprio territorio.
Davide Tarò.