DEPARTURES
Tit. Orig: Okuribito, Regia di Yojiro Takita con Masahiro Motoki (Daigo), Ryoko Hirosue, Tsutomu Yamazaki, Tetta Sugimoto, Kimiko Yo, Kazuko Yoshiyuki, Takashi Sasano, Sceneggiatura: Kundo Koyama, Musica: Joe Hisaishi, Direttore della Fotografia: Takeshi Hamada, Production Design/scenografie: Fumio Ogawa, Montaggio: Akimasa Kawashima, Luci: Hitoshi Takaya, Suono: Satoshi Ozaki, Giappone 2008, 131’, Prodotto dalla Shochiku, Distribuito in Italia da TUCKER FILM.Per l’Italia questo titolo coraggioso segna un ritorno graditissimo e da tempo auspicato: Il cinema giapponese finalmente (ri)visibile sul grande schermo a distribuzione nazionale.
D’altronde sotto Pasqua cosa ci si poteva aspettare?
Quindi innanzitutto grazie alla meritoria Tucker Film Udinese casa distributrice dietro alla quale ci sono personalità preparate e coraggiose che stanno anche non a caso dietro al Far East Film Festival.
Premio oscar come miglior film straniero e vincitore dell’Audience Award all’Udine Far East Film Festival edizione 2009, proprio quando lo stralunato One Million Yen Girl di Yuki Tanada trionfava meritoriamente e contemporaneamente nel MyMovies Award tra il pubblico divertito e schioccato allo stesso tempo.
Yojiro Takita già regista del film live dedicato a Tsurikichi Sampei (Sampei Ragazzo pescatore) storico anime arrivato anche in Italia negli anni ’80 tratto dall’omonimo manga del 1973 di Shonen Jump di Takao Yaguchi qui affonda la cinecamera in qualcosa di impalpabile ed indicibile, ma profondamente fisico: un corpo morto e quello che ci sta attorno, siano rituali, siano persone, siano piccoli gesti fatti un’ultima volta per il caro.
Come il Dryer ed il suo cinema più “corporale” o i corpi stessi del capolavoro Vital di Tsukamoto o Organ della Fujiwara, cosa è essenziale non è altro che quello che sta attorno ad un corpo una volta vivo ma ora non più, ad un corpo freddo come recitava tra l’altro l’omonimo titolo italiano del bellissimo, delicato ed oltremondano episodio della quinta stagione di Buffy L’ammazzavampiri scritto da Joss Whedon in persona.
Il violoncellista Daigo matura la coscienza di non essere bravo come pensava nel suo lavoro, intanto la sua orchestra chiude lasciandolo senza impiego.
Torna con la sua giovane moglie al suo piccolo paese natale, dove troverà una occupazione particolare che nessuno vuole (più) fare: il ‘Thanato esteta’, colui che “trasforma” e rende presentabili ai cari le ultime spoglie mortali dei loro dipartiti.
Gli ultimi gesti commoventi, di una ieraticità che va oltre il cinema e sfocia nell’antropologia, o forse no, forse è esattamente il contrario, proprio questa è la potenza della sala cinematografica e di alcune pellicole nello specifico: di andare oltre il sentire comune riuscendo a catturare per un effimero istante l’immagine del Divino, del Sacro.
Il tatto è il senso che più in questo film si percepisce, viene fuori delicatamente ma decisamente.
Nei gesti quasi rituali della vestizione delle spoglie del defunto, dei movimenti quasi come delicate carezze ad un viso che poco prima respirava e rideva, per dargli e dare a chi guarda (anche noi spettatori) pace.
Il tatto, il contatto diretto con il morto nella cultura giapponese e nel comune sentire è qualcosa di “sporco”, qualcosa che insozza la persona, ed è proprio per questo che è volutamente “divertente” , un capolavoro di comicità potenzialmente devastante per lo spettatore giapponese (e non solo) la scena in cui la moglie scopre il nuovo lavoro di Daigo visionando casualmente una videocassetta promozionale dove suo marito si finge una salma proprio mentre gli si infila cotone nei bassi orifizi per evitare la fuoriuscita dei liquidi indesiderati…
La pudicizia e la “sporcizia” del contatto con la salma, unito ad un lavoro quindi “deprecabile” per il comune sentire è perno di tutta la pellicola, toccherà a Daigo cercare di dare un senso a questo nuovo lavoro capitatogli per caso/destino.
La regia è delicata, leggera come un lenzuolo bianco che produce un licore quasi divino poggiato sull’intera messa in scena, l’apertura del film con due bagliori lontani di fari, quasi un miraggio che si avvicinano lentamente, in una strada deserta dentro un paesaggio completamente innevato e sotto una bufera di neve in piena attività, scopriamo qualche secondo dopo che quei due fari appartengono ad una lunga macchina nera dove c’è il nostro Daigo ed il suo capo.
Sentiamo i pensieri di Daigo: “Quando ero piccolo non nevicava così”
Capolavoro della memoria, dei rituali, del cinema dell’apparizione.
Davide Tarò.