AMABILI RESTI
Un film delizioso, poetico e “amabile” che sta tutto in una bottiglia.
The Lovely Bones, Usa/Gran Bretagna/Nuova Zelanda 2009 CAST: Jack Salmon Mark Wahlberg Abigail Salmon Rachel Weisz Nonna Lynn Susan Sarandon George Harvey Stanley Tucci Susie Salmon Saoirse Ronan Len Fenerman Michael Imperioli Brian Nelson Jake Abel Brian Nelson Jake AbelLen Fenerman Michael Imperioli Clarissa Amanda Michalka Caden Thomas Mccarthy Ray Singh Reece Ritchie Holly Nikki Soohoo Lindsey Salmon Rose Mciver Sig.ra Singh Anna George Sameul Heckler Andrew james Allen Ruth Carolyn Dando Buckley Salmon Christian thomas Ashdale Ronald Drake Charlie Saxton Flora Hernandez Sig. Connors Stink Fisher Credits Sceneggiatura Fran Walsh, ,Peter Jackson, Philippa Boyens (tratto dall’omonimo romanzo di Alice Sebold) Fotografia Montaggio Jabez Olssen Costumi Nancy Steiner Scenografia Naomi shohan Shore Regia Peter Jackson Effetti Craig Weta digital ltd, Musiche Brian Eno. Durata 135 minuti.
In un mezzo cielo che muta colore a seconda dello stato d’animo e del subconscio, in una terra di mezzo che stavolta si situa in una linea di demarcazione tra la vita e la morte, come un campo di gran turco lungo lungo e deserto troppo deserto, ed un lucente malinconico scatto di polaroid. Uno scatto di una polaroid che chiude e inizia significativamente la pellicola, mai un colore così sovraesposto presente per tutto il film ricorderà in maniera così compiuta e capitale il materiale di cui è fatta la pellicola, eticamente.
I sogni e i ricordi di un morto che si muove sullo schermo, quale magia più terribile e anti-etica come direbbe non a torto Bazin nel suo ‘La morte ogni pomeriggio’, ecco il motore di tutta la pellicola.
Solo che questo morto ha gli occhioni dilatati e oltremondani della giovanissima stupenda irlandese Saoirse Ronan, quindicenne già attrice in Espiazione, uccisa e (forse) violentata da un uomo nero, occhi magici amabili forieri di una visione “aldilà” che già possedeva Elijah Wood come Frodo o, ancora, una giovanissima Kate Winslet come creatura del cielo (o paradiso).
Un volto e degli occhioni da innamorarcisi subito, volendo fare chiacchieracce da bar cinefilo si potrebbe pensare che le piccole labbra e l’incantevole e discreta silouhette di Saorse sono fatte per attirare le attenzioni paternamente inconsce di qualsiasi estraneo e le amorevoli attenzioni del ragazzino pronto ad innamorarsi ed infatuarsi sopito in ogni visionante adulto, e forse proprio questo voleva il regista.
Alice Sebold scrisse il romanzo da cui viene tratta questa pellicola per interiorizzare una esperienza di stupro, ma nella pellicola ogni riferimento esplicito alla sessualità viene tolto, in qualche modo dimenticato.
Jackson voleva raggiungere l’ Immagine asessuata del desiderio visivo.
“Jackson si sofferma sull’ansia spirituale della storia e sul potere memoriale degli oggetti”1
La pellicola di Peter Jackson non pecca di viltà, si rifugia soltanto nelle piccole cose, in mondi “bonsai”, in microcosmi come possono essere le inquadrature prese separatamente, come può essere lo schermo in cui viene proiettato il film o la televisione in cui verrà rivisto, come può essere il rifugio/trappola nascosto ed inumato nel terreno dall’assassino, come le bottiglie dove ci sono le navi in miniatura del padre, come possono essere le case di bambole o case in miniatura, i plastici di ordinatissimi interni borghesi posseduti dall’assassino, il cielo in cui viene ospitata la piccola Susie Salmon da morta o ancora le polaroid finali, dove il sorriso di Susie è imprigionato per sempre, senza più possibilità di invecchiare, crescere, amare.
Un amore fisico, anche selvaggiamente sessuale che nel romanzo veniva fuori, che qui non viene nemmeno menzionato, ed a ben ragione dal punto di vista del pater familias Jackson, non si può “sporcare” una icona eminentemente visiva come lo è diventata la Susie Salmon cinematografica, troppo amata evidentemente anche dal demiurgo della pellicola.
Nell’entertainment americano solo un doppio episodio della settima stagione del serial televisivo culto X-Files osò tanto da far intuire qualcosa di brutto che era occorso agli “intoccabili” bambini del paese America, il tabù per eccellenza, l’episodio in questione si intitolava Closure (L’esistenza del tempo) e dolentemente ma in una maniera indicibilmente poetica “risolveva” il mistero del presunto rapimento alieno della così lungamente cercata Samantha Mulder, sorella di Fox, per la regia di Kim Manners e la sceneggiatura di Chris Carter e Frank Spotniz.
Tornando alla pellicola, l’immensità nelle piccole cose, nel particolare, questo gli effetti speciali della Weta di Wellington non riescono proprio a riprodurlo dentro all’opera, forse per un’ansia di fantasmagoria all’eccesso ma le bottiglie, i colori circostanti, il cielo e il grande albero sanno di “falso”, di quel falso fastidioso e superficiale (da superficie appunto, senza far vedere il contenuto) non voluto dal regista.
Ma la pellicola questa immensità ci prova a trasmetterla eccome, riuscendovi anche in alcuni punti, era da anni per esempio, che un momento cinematografico non era pregnante come quello in cui, meritoriamente e genialmente, viene utilizzata la bellissima, immanente ed insinuante ’Song for a Siren’ dei troppo dimenticati Cocteau Twins , da lacrime agli occhi.
Un film che sta tutto in una bottiglia, ma che dovrebbe essere visto assolutamente là da dove proviene e là dove è incommensurabilmente diretto: al cinema.
Davide Tarò.
1 Silvia Colombo, Il culto delle cose in Duellanti n°59, Febbraio 2010, Milano.