Un prophète
di Jacques Audiard
E’ consuetudine nell’agenda distributiva italiana, che molti dei casi cinematografici internazionali latitino per mesi, a volte anni, prima di poter illuminare gli schermi delle sale cinematografiche nostrane: Un prophète – in uscita il prossimo 19 marzo – giungerà in Italia a quasi un anno dalla trionfale accoglienza riservata a questa meraviglia dal 62° Festival di Cannes, ove meritatamente si aggiudicò il Gran Prix della giuria presieduta da Isabelle Huppert.
Il film è diventato un vero caso oltralpe, non solo per i suoi indiscutibili meriti artistici, ma anche per la profonda e dura riflessione sociale con cui questa pellicola ha saputo imporre una preventiva eco europea.
Malik El Djebena appena diciottene si trova a dover convivere con una condanna a sei anni di prigione: praticamente analfabeta, il ragazzo immediatamente realizza il significato della sopravvivenza in carcere, viene barbaramente costretto ad accettare la protezione di una banda di detenuti corsi per diventarne il loro tuttofare, iniziando così un cursus di “formazione” che attraverso le spietate leggi della prigionia lo condurrà a commettere molti errori, ma anche a diventare adulto. E a cercare testardamente un modo per uscire il più indenne possibile da quell’incubo.
La capacità con cui il regista Jacques Audiard ha saputo legare attraverso la storia di Malik i temi più cruciali di un sistema carcerario sfaldato, persecutorio e dominato dal caos, è davvero notevole: attraverso una regia intimamente pervasiva, sensoriale, onirica, Audiard restituisce non solo il dramma personale costituito dalla privazione delle libertà individuali, ma con esso tutta l’assurdità di un inutile impianto punitivo che – non solamente in Francia – fa del totale annientamento umano l’unica possibile espiazione delle colpe. Il suo sguardo è necessariamente claustrofobico, ossessionato dai particolari e dalla fisicità costretta dei detenuti, dai loro ritmi esistenziali: il cortile, le docce, le celle, l’isolamento, diventano luoghi di assenza che costringono gli uomini a farsi bestie, e come bestie cercare di sopravvivere a danno dell’altro. Lo stile registico si arricchisce di evoluzioni estetiche incantevoli man mano che la “discesa agli inferi” si fa più cupa e insidiosa, mentre il difficile ritorno alla luce si conquista con una regia paradossalmente più misurata e a tratti rasserenamente, per esplodere in un finale di incredibile grazia. La fotografia simbolicamente gelida e poi ieratica, le originali incursioni del montaggio e il significativo timbro apportato dalle musiche di Alexandre Desplat, sono gli attributi essenziali che hanno consegnato a Un prophète quelle sfumature di elegante modernità che lo contraddistinguono.
Un’immersione senza ossigeno nel substrato più spietatamente reale della società contemporanea, che fa dell’incredibile cast il suo valore aggiunto più importante: Audiard e Co. hanno forse il principale merito di aver saputo scegliere e rappresentare senza fuorvianti patinature un paesaggio di volti che davvero restituisce tutte le contaminazioni culturali e sociali di un mondo globalizzato. Attraverso ovviamente il suo lato meno presentabile, un universo di reietti, abbandonati a marcire in quegli pseudo-lager legalizzati che tanto piacciono alle moderne democrazie occidentali. Tra tutti, l’interpretazione del protagonista Tahar Rahim raggiunge vette d’immedesimazione straordinarie: lo sguardo della macchina da presa lo indaga dentro e fuori, il suo corpo parla della sua evoluzione coercitiva, i suoi occhi raccontano più di un’intera sceneggiatura.
Ne risentiremo forse parlare ai prossimi Oscar, dove Un Prophète è candidato come miglior film straniero, in ogni caso è uno dei più affascinanti e incisivi film del 2009, da vedere trattenendo il respiro per tutti i suoi 150 minuti.
Massimo Pornale