Sherlock Holmes
di Guy Ritchie
Una lettura apocrifa, Sherlock Holmes secondo Guy Ritchie. Dimenticate una volta per tutte Lock & Stock (1998), è passata una decade, il signore si è sposato con l’Icona pop per eccellenza, ha divorziato, ha fatto film orrendi e un paio decenti: quel Ritchie non c’è più, né forse tornerà. Certamente non in questo blockbuster ispirato alle imprese del più celebre investigatore privato britannico e firmato Waner Bros: che il regista inglese abbia venduto il suo marchio di fabbrica al colosso americano è chiaro sin dalle primissime inquadrature, ove il logo della Warner emerge lugubre e minaccioso dalle pozzanghere londinesi, stigmatizzando i titoli di testa con una delle cifre stilistiche preferite della casa di produzione. Tanto per marcare simbolicamente il territorio, il che non è necessariamente un problema. Potremmo piuttosto parlare di quella certa soggezione percepita nel lavoro di Ritchie, nello sfoderare le sue carte migliori di fronte al considerevole budget d’oltreoceano, garantitogli peraltro dal ritrovato successo dell’ultimo RockNRolla (2008): come se, per assicurarsi la futura benevolenza dei suoi investitori, il cineasta abbia giocato in difesa, armando e lustrando tutta l’artiglieria che questi gli avranno commissionato, dimenticandosi però alla fine di entrare veramente in battaglia. Spieghiamoci meglio. La sensazione è che questa gotica e nevrotica interpretazione moderna dei classici di Sir Arthur Conan Doyle sia stata fin dal principio studiata nemmeno troppo a lungo al tavolo della produzione per garantire un risultato che accontentasse pochi, ma non dispiacesse realmente nessuno. Se queste erano le rispettabilissime premesse, hanno fatto davvero centro.
Sherlock Holmes è infatti un film molto godibile, che se magari non rimarrà impresso a lungo nella nostra memoria cinefila, tuttavia sa raccontare con ironia ad un pubblico moderno le peripezie del geniale investigatore d’oltremanica e del suo fedele compagno di sventure John Watson. Quella dipinta da Ritchie, grazie alla macabra fotografia di Philippe Rousselot, è una Londra gotica, sporca, malfamata, ignorante, dominata dalla corruzione e da poteri occulti, a tratti poco originale ( in alcune scene si ha quasi la sensazione che i “fratelli Warner” abbiano provato a riciclare più di un’idea dall’immaginario scenico dello Sweeny Todd di Tim Burton). Ecco quindi che il riconoscibile marchio del regista britannico torna qui prepotentemente a dominare il discorso filmico: montaggio frenetico, sapiente utilizzo diegetico delle musiche composte da Hans Zimmer, sfrontato abuso del rallenty per enfatizzare soprattutto le scene più violente, voce narrante fuori campo del protagonista ad anticipare i risvolti narrativi, uno stile plasticamente grezzo e da strada. Elementi di cui Ritchie è maestro da molto tempo ma che, va sottolineato a suo favore, sa adattare senza troppi problemi alla prova in costume di fine ottocento.
Come sentenziano le imponenti immagini che campeggiano sulle locandine ufficiali, il fulcro magnetico di tutta la pellicola è la coppia di attori chiamati a vestire i panni dei due celebri protagonisti: se Robert Downey Jr con la sua insopportabile presenza scenica (giudizio prettamente personale) sa caratterizzare egregiamente un istrionico Holmes – donandogli una decadenza caratteriale e una lucida follia piuttosto funzionali – Jude Law nell’ottima interpretazione del sagace Dr. Watson e amico fraterno dell’investigatore, riesce nuovamente a confrontarsi con un ruolo ricco di sfumature, uno di quei personaggi che da tempo mancavano alla sua carriera.
Il film arranca leggermente nella parte centrale, laddove si stanano gli intrecci della storia: il plot, incentrato su alcuni misteriosi crimini di matrice massonica che sporcano e minacciano il parlamento britannico e l’intera nazione, sarebbe anche interessante ma gli sceneggiatori Michael Robert Johnson e
Anthony Peckham non sono riusciti a scavare in profondità l’argomento, seppur di estrema pregnanza; né lo stesso Ritchie sembra possederne la giusta padronanza per enfatizzare quei nuclei narrativi che avrebbero potuto legare maggiormente la sua storia all’attualità contemporanea. I dialoghi a volte si fanno piuttosto deboli, a scapito della fluidità del racconto: sembra infatti mancare quel certo guitto che funga da collante alle innumerevoli gag del racconto.
Ricapitolando, Shelorck Holmes è un dignitosissimo prodotto d’intrattenimento, che segna la consacrazione mainstream di un regista stilisticamente riconoscibile senza aggiungere molto alla sua prolifica carriera, ma sancendo definitivamente la ritrovata forma dell’ex signor Ciccone. A suggellare le finalità produttive della pellicola, un finale aperto a uno o più sequel: sperando quindi che si tratti di un primo promettente capitolo introduttivo, un embrione destinato a crescere ed evolvere con il suo autore, aggiustando magari qualche tiro e provando ad essere più in sé, più “Ritchie”. A patto che si mantengano gli stessi protagonisti e ci si inventi un villain, perlomeno credibile.
Massimo Pornale