Il nastro bianco
di Michael Haneke
Impeccabile e imprescindibile lezione di cinema autoriale, all’essenza. Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes, Il nastro bianco (Das Weisse Band) è un film imponente e drammatico, estremamente rigoroso: 144 minuti in bianco e nero, tanto per capirsi. Eppure il 67enne cineasta austriaco Michael Haneke è riuscito ancora una volta a fare centro, costruendo una pellicola estrema, riflessiva e molto affascinante.
Un serie di misteriosi crimini accorsi ai suoi abitanti, sconvolge la sospensione temporale tipica di un piccolo villaggio nella Germania settentrionale di inizio ‘900: stretti attorno alle rigide regole sociali di un baronato, i cittadini si perdono in alcune supposizioni sui possibili responsabili, senza però osservare la realtà più evidente, seppur spietata. Solo l’insegnate del paese, attento osservatore dei suoi alunni, sembra rendersi conto che qualcosa di ben più grave sta maturando sotto i loro stessi occhi.
Autore da sempre interessato a scomporre in immagini le diverse espressioni della violenza umana – analizzata già nelle precedenti opere attraverso le più molteplici angolazioni – nel suo ultimo lavoro Michael Haneke sembra voler puntare l’obiettivo su quei semi di intolleranza e repressione che germogliarono in Germania agli albori dello scorso secolo e che la storia ufficiale testimonia essere degenerati in un abominio umano e culturale. La sua indagine si concentra infatti principalmente su due fattori, agenti “inquinanti” di qualsiasi società, che concorrono a degenerarne l’evoluzione in ogni luogo ed in ogni tempo. Da una parte infatti la denuncia di una società quasi endogamica, in cui il singolo cittadino perde passivamente la propria naturale individualità a favore di una dimensione collettiva castigante e annientante. Il tutto per la parte, laddove anche i crimini più efferati vengono taciuti di comune accordo per garantire sempre e comunque lo status quo, per non compromettere il benessere di una quotidianità sicura perché riconoscibile, anche a costo di giustificare l’ingiustificabile. Dall’altra, ma indissolubilmente connessa alla prima, la questione dell’educazione, centrale fin dal titolo: quel nastro bianco che la moglie del parroco stringe come segno di onta e purificazione al braccio dei propri figli, rei di avere infranto le regole di casa o semplicemente di essersi abbandonati alla scoperta dei naturali istinti del proprio corpo. Un società costruita su ingannevoli proibizioni che si riflette anche nei molteplici tabù familiari, nei meschini ricatti morali che garantiscono il quieto vivere tra le mura di casa ma che col tempo possono esacerbare la natura di un’infanzia repressa, ed esplodere in spietate e inspiegabili eruzioni di violenza. L’educazione religiosa gioca il ruolo di subdolo complice nella formazione di un’intera generazione, con il suo baraccone di assurde dottrine e vetusti rituali: seminare la rigida virtù della fede può far germogliare i mostri del domani.
Il nastro bianco ha uno stile severo ed essenziale e risplende inevitabilmente nelle sfumature del bianco e nero: una scelta cromatica dettata dalla gelida fotografia di Christian Berger, che sa impreziosire il ritratto sociale senza mai sbavarne i contorni. Haneke è chirurgicamente drammaturgico nel sezionare con spietatezza i piani che compongono la sua straordinaria regia, non cadendo mai nelle facili trappole di un progetto così angusto. Un cast corale di incredibile spessore, soprattutto nelle interpretazioni dei giovani attori.
Il fascino di questa pellicola si manifesta nel riuscire a trasportare costantemente lo spettatore per tutta la sua durata, quasi due ore e mezza, verso un’inquietante non-finale. Quello vero è già stato scritto, dalla Storia.
Massimo Pornale