Thirst di Park Chan-wook

thirst

Storie di vampiri, esistenziali. Immunizzarsi in tempi di pandemia adolescenziale (e non) dagli aitanti e succulenti giovani dracula di hollywoodiana derivazione è sfida ai limiti dell’umana dignità: occorre un antidoto antibiotico che liberi la mente. E anche la gola.
Il regista-culto Park Chan-wook, padre-padrone di quella Trilogia della vendetta (2002-2005) che già s’ergeva a spartiacque gnoseologico nella cinematografia contemporanea, si dedica ad una storia di vampiri in cui il protagonista principale è una prete cattolico vittima di un virus sperimentale che come peculiare controindicazione lo tramuta in un famelico vampiro. Già di per sé fa tremare le vene. Se poi il risultato si rivela essere uno dei più affascinanti e disturbanti film dell’ultima stagione, occorre una qualche riflessione in merito.

Thirst, presentato in concorso a Cannes 2009, è appunto l’ultimo (capo)lavoro di Park Chan-wook, talento dall’obiettivo unico e riconoscibile nonché intrinsecamente provocatorio: i limiti del romanzo di formazione da novello vampiro si scontrano infatti qui con le dissonanze stilistiche e linguistiche tipiche del cineasta sudcoreano. In questa pellicola Park sembra voler forzare in un’estrema sintesi tutti gli stilemi cari al suo cursus precedente, dilatandone le possibili valenze ed esasperandone la forza corrosiva, rinunciando da principio ad ogni possibile ricerca dell’effetto sorpresa a favore di una regia più equilibrata, seppur folgorante.
Sangue e sesso: mai come in Thirst il binomio carnale assume un ruolo fondamentale nella codificazione della struttura narrativa. Osserviamo un religioso (cattolico) spogliarsi gradualmente dalle sue strette vesti clericali per affogare anima e corpo in un’istintiva e “malata” attrazione verso la materia sanguinolenta, godere e poi repellere i propri sensi, abbracciare e poi allontanare l’ignoto del Sé, e infine abbandonarsi completamente al miracolo di una nuova esistenza. Un bivio che inevitabilmente coincide con la scoperta di una sessualità troppo a lungo soffocata, martirizzata, espiata. Il prete Sang-hyeon tenta di obliare la sua nuova natura di vampiro, reprimendo la sua crescente sete di sangue per non nuocere al prossimo; allo stesso modo, di fronte agli impellenti desideri sessuali che lo attanagliano, sceglie la via dell’auto-flagellazione, castigando spietatamente le sue pudenda. Indagare l’effetto piuttosto che la causa. Proprio nell’aberrazione sessuale consta il fascino superlativo che Park sa imprimere alla sua opera: crude e spinte immagini danno vita ad alcune delle più riuscite sequenze di sesso viste da anni sul grande schermo. Un vortice di passione che travolge lo spettatore allo scopo di disturbarne la percezione, l’ascesa nutrizionale di un uomo ipnotizzato dai globuli degli altri uomini in un escalation “alimentare” (e infine sessuale) che travolge le vittime, rendendole complici.

La condizione ultima di solitudine dettata dalla propria diversità sembra essere affrontata da Park partorendo la sua storia da una condizione iniziale d’isolamento – la clinica nella quale il prete si offre volontario per i test sul nuovo virus – a conferma di un tema su cui il regista più volte ha posto l’accento nella sua filmografia. Le perturbanti deviazioni che alienavano i protagonisti della Trilogia, erano infatti a loro volta sintomo o causa di forzati periodi di segregazione: menti selvagge ingabbiate dalla corruzione morale degli uomini, per sedarne gli eccessi di ira a passione. Lo splendido I’m a cyborg, but that’s ok (2006) era completamente ambientato in una clinica psichiatrica e raccontava il mondo (interiore) di due giovani ragazzi costretti a vivere il loro amore tra le mura di una simbiosi mentale tanto romantica quanto utopica. In Thirst nuovamente l’autore chiude i confini del suo dramma all’interno di un claustrofobico embrione narrativo ch’è metafora della condizione terrena di ogni individuo: la sua poetica sembra suggerire che, in ultima analisi, lo scotto da pagare per la propria libertà e indipendenza nei confronti delle illusorie interdizioni sociali (la religione e il sesso in primis), passa attraverso la difficile conquista di una nuova sfera personale. Il sangue versato è la valuta di tale ascesa, l’amore la sua contropartita.
Ogni delitto è castigato nella drammatica catarsi finale, dove vittima e carnefice confondono i rispettivi ruoli: sono andati oltre i limiti della propria diversità, e ancora una volta per Park la punizione ha il sapore doloroso della liberazione.

Lo splendido stile di questo film, la sua sfolgorante fotografia e le incredibili performance dell’intero cast, fanno di Thirst una della massime espressioni visive di Park Chan-wook.

Difficilmente potremo ammirarlo in sala, andate a vedere New Moon.

Massimo Pornale

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