Le Refuge di François Ozon
François Ozon è autore generoso e intelligente, capace di interpretare con estrema lucidità e delicatezza i cortocircuiti emotivi che dominano l’insostenibile condizione dell’uomo moderno a confronto con i grandi quesiti della sua natura. Il suo ultimo lavoro, Le Refuge – presentato al 27° Torino Film Festival nella sezione Festa Mobile – segna un’ulteriore evoluzione nell’estetica del cineasta francese.
Mousse e Louis sono due tossicodipendenti che vivono a Parigi; Mousse sopravvive a Louis che muore di overdose al termine di una straziante notte di eccessi; Mousse scopre di essere incinta, e che il padre è Louis stesso; Mousse scappa per trovare conforto e risposte in un’isolata casa di mare, il rifugio appunto; Paul, fratello omosessuale di Louis, la raggiungerà per starle vicino.
Cardine costituente della filmografia di Ozon, la morte torna in questa pellicola a costituire l’embrione originale, piuttosto che conclusivo, della narrazione stessa: dopo Sous la Sable (2000) e Le Temps qui Reste (2005), il regista sembra infatti più interessato ad indagare le sfumature che caratterizzano l’elaborazione di un lutto, piuttosto che descriverne il dato cronologico in sé. E come in Le Temps qui Reste, lega indissolubilmente il tema della scomparsa a quello della nascita, o più prettamente a quello della maternità: una condizione totale e totalizzante quella della giovane Mousse, distaccata e forse neppure desiderata, ma frutto di una relazione tanto masochista quanto radicata, anche nelle ferite impresse sotto la pelle di chi rimane in vita, e che la vita stessa porta in grembo.
Con uno stile impeccabile e ormai consolidato, Ozon accarezza i suoi bravissimi protagonisti attraverso la scoperta della solitudine e dell’abbandono, la riscoperta del sé e le scelte che da questa inevitabilmente scaturiscono, con riprese avvolgenti e calde ogni qual volta il protagonista in camera è il pancione di Mousse (un splendida Isabelle Carrè, tra l’altro realmente incinta durante le riprese del film): a disegnare un ideale utero entro cui le vicende prendono vita.
Ancora una volta il mare, topos tanto caro al regista, concorre alla catarsi del lutto: nulla quanto l’isolata contemplazione del mare – sembra suggerire più che mai Ozon – può permettere all’uomo di annegare tra le proprie debolezze, annaspare e poi nuovamente ritrovare il respiro. Una pace che, a differire questa dalle opere precedenti, non solo può dominare in un qualche modo i moti dell’animo, ma regalare finalmente un ultimo senso di speranza.
Un anelito che accompagna l’inevitabile quanto per nulla scontato finale della pellicola, laddove i nessi semantici tra le opere del cineasta si fanno se possibile ancora più fitti: nella riuscitissima sequenza finale infatti, Paul accoglie tra le braccia la figlia del fratello Louis, in un’immagine che specularmente riproduce quella, splendida, impressa nella locandina de Le Temps qui Reste, laddove ad accudire fisicamente una nuova vita era Melvil Poupaud, che non a caso in Le Refuge dona meravigliosamente volto al compianto Louis. In quel film la scena dipinta sui manifesti non appariva mentre qui, idealmente, il cerchio si chiude tra le braccia del giovane Paul.
Massimo Pornale