Vita Vissuta nel Cinema Italiano 10
Capitolo 10.
Ultima settimana di riprese, di nuovo a Roma.
Sono tornato nella saletta di montaggio, sono tornato alla sicurezza familiare, ad Alberto e Michela. Ridiamo della grottesca esperienza, sicuri che con la fine delle riprese le cose si risolveranno da sole. Ormai la richiesta di farmi partire per il Sud America sembra lontana, sembra davvero solo una provocazione: qui a Roma i giochi di potere hanno perso il loro significato, se potevano avere uno scopo sul set, ora che il regista sta per partire non hanno davvero più senso.
Quasi quasi per un attimo ci credo anche io. Ma basta una telefonata di Aroña per farmi tornare sulla terra:
– Hola, soy Alonzo! Te faccio mandar una email, tu devi scegliere el quartier donde quieri de viver, y yo te trovo el appartamiento. Mira le foto que te mando, y decidi.
Poi ci si mette pure la Cameretta:
– Ti sto chiamando dal set, abbiamo appena finito un ciak. Brrr, che freddo: sono tutta nuda perché cioè ho girato la scena del bagno al fiume. Hai deciso? Guarda, chiedimi tutto quello che vuoi, ma fallo per me, cioè vai. Lo so che Aroña è maligno, ma tu prendila come una vacanza. Vuoi portare la tua ragazza? Non c’è problema, cioè tanto pago tutto io.
E Renato Meri:
– Ahò, allora? Che cazzo stai ad aspetta’? Stai ancora a ffa’ storie? Ammazza, sembra che chissà cche t’amo chiesto!
– Guarda, non saprei… l’Avid… non so come fare… Alberto…
– Ancora cco’ ‘ste storie? T’ho detto che nun te devi preoccupa’. È ‘na vacanza: vai lì, monti, te diverti, torni e semo tutti contenti. E firmi pure er film. Che voi de più?
– Senti, bisogna che ne parliamo, dobbiamo parlarne con Alberto.
– Sì, nun te preoccupa’, a Arberto ce penso io.
– No, guarda, bisogna che vieni al montaggio e ne parliamo.
– Vabbè, mò vedo che posso fa’.
Meri ci promette di venire in sala montaggio il mattino dopo. Ma non si fa vedere. A pranzo, Alberto Michela ed io andiamo a mangiare in un bar. Mi sembra di aver fatto colazione con della carta vetro, non riesco nemmeno a bere. Fumare sì, quello riesco a farlo benissimo.
Parliamo poco. Michela è allegra, Alberto sembra un po’ nervoso, mi prendono in giro.
– Mò vediamo se la nostra posizione dipende da te, vediamo se sei tu a dover decidere del lavoro di tutti e tre.
Meri arriva nel pomeriggio. Quando sento suonare il citofono, mi precipito ad aprire. Entra, mi stringe velocemente la mano:
– Ho parlato cco’ Aroña: dice che si er film ‘o fai tu, ‘o firmi tu. Me raccomanno, io più de così nun posso fa’.
Entra, saluta tutti, si accomoda. Ci sediamo in cerchio, io mi metto accanto alla porta, una via di fuga, ché non si sa mai. Fumo una sigaretta dietro l’altra, dopo pochi minuti la stanza sembra una sala da poker.
– Arbe’, la posizione tua nun è facile.
– Non è facile per te.
Sorrido: un inizio così, vuol dire che Alberto non ha intenzione di fargliene passare nemmeno una. Si prospetta battaglia.
– Ner senso che tu sei stato scelto da’a produzzione, e questo ar reggista nun je va bbene. Parlamese chiaro: da quando in qua er montatore vie’ scelto da’a produzzione?
– E siamo d’accordo.
– Oh. Questo è stato l’errore da’a Cameretta.
– Ognuno fa gli errori suoi.
– E va bbene. Mò: tu colpe nun ce n’hai. Quello è un po’ stronzo. Mò, però, ‘sto film ‘o dovemo fini’. E come famo?
– Come famo?
– Famo così: ce mannamo lui, e indica me. – Ce mannamo lui, cor regista, che finischeno er film. Quanno torna, to ‘o monti tu. E nessuno te vie’ a rompe’ li cojoni.
– In che senso?
– Ner senso che si er film nun piace a’a produzzione, er regista ppe’ contratto nun ppo’ ddi’ gnente, e so’ ‘o finimo noi. Se invece er film vie’ bbene, so artri cazzi.
– Che cazzi?
– Eh, se va bbene va bbene, che dovemo fa’?
– E chi lo firma, in questo caso?
– Lui, e indica me. – Lui nun ‘o po’ firma’. Chi cazzo ‘o conosce, a questo? ‘O firma er regista, ppe’ forza.
Ah. E non mi sembra un trucco: Meri non è abbastanza furbo. Sono io, lo scemo.
– Mò veniamo alla cosa: mentre che ‘sti due stanno all’America, io nun è che posso paga’ du’ stipendi e n’antro Avid. Ve devo manna’ a casa, a te e a Michela.
– Come sarebbe? E il contratto?
– Arbe’, tu il contratto nun ce l’hai.
– Appunto. Che volemo fa’?
– Nun ce l’hai, ma è come si ce n’avessi due! Arbe’, nun te preoccupa’, stai in una botte de fero!
– In che senso che sto in una botte de ferro?
– Arbe’, cerca de capimme, si te dico che un contratto nun ce l’hai, ma ppe’ ‘sto motivo ce n’hai due.
Mentre pronuncia questa frase, Meri si esibisce in una serie completa di movimenti facciali, a evidenziare sottintesi e ‘se semo capiti’.
Esco, con la scusa di dover fare una telefonata. Prendo aria, l’aria ormai primaverile di Roma. Quando rientro stanno discutendo di cose generiche, giusto per passare il tempo mentre aspettano me. Guardo Meri e Alberto, Michela non ho il coraggio di guardarla. Non sono sicuro ma mi sembra di aver sentito qualcuno dire che il lavoro di tre persone dipende dalla mia scelta di partire oppure no.
– Non parto, dico. Mi dispiace, non parto.
– Che dovemo fa’, l’accendiamo?
– Ho deciso, non parto.
– Aho, pensece, mi dice Renato. Nun prenne decisioni affrettate. Te chiamo stasera, pensece.
Se ne va. Quando restiamo soli noi tre, trovo il coraggio di dire a Michela che mi dispiace. È un ricatto, però mi sento comunque responsabile per il suo posto di lavoro. Lei mi risponde che ho fatto la scelta giusta. Non so se crederle.
La sera non mi telefona nessuno.
Il giorno dopo, invece, il primo a chiamarmi è Aroña:
– Hola, soy Alonzo! Yo mañana me voy, te aspietto en una semana. E recuerda: si non vienes, tu fai el mas grande error de tu vida.
E poi Meri, la Cameretta stavolta salta il turno:
– Ahò, ‘ndo stai?
– A casa, stavo andando in sala montaggio.
– C’hai deciso? No, no, nun me di’ gnente, passa de qua e ne parliamo.
“De qua” sarebbe in ufficio, in un appartamento del centro. Quando arrivo Meri non c’è, è uscito. Lo aspetto in corridoio, seduto su una sedia di legno, accanto al monitor Export, inscatolato. Davanti a me un cane, un bel cane nero che mi si siede di fronte e poggia la sua testa sulle mie ginocchia. Insieme aspettiamo Renato.
Quando entra, Meri nemmeno mi guarda:
– Ahò, vie’ qua.
Non so se ce l’abbia con me o con il cane. Nel dubbio, mi alzo io.
La sua stanza è completamente vuota. Una scrivania con il piano di vetro, due sedie, un portatile, un telefono. Niente altro. Mi indica una sedia.
– Allora, ‘a famo finita, cco’ ‘sta storia? C’hai deciso?
– Non vado.
Non fa una piega.
– ‘O sai che vor di’? ‘O sai che ppe’ corpa tua me tocca de licenzia’ Arberto e Michela? Nun te piagne er core?
Non rispondo.
– Come voi. Se va bbene a te. Arrivederci.
– Come “arrivederci”?
– E che te devo di’? Stai a casa da subbito, nun c’anna’ nemmeno, all’Avid. Che ce vai a ffa’? ‘O sapevi che te dovevo lincenzia’. Che è, te tengo ancora? E ppe’ ffa’ che? Vai a casa, no?
– E Michela e Alberto?
– Mò vedo. A Michela je faccio fini’ a settimana, cco’ Arberto mò vedo. Te saluto.
Mi indica la porta. Mi alzo e vado via.
Qualche giorno dopo mi chiama Alberto. Temo sia arrabbiato con me, del resto per causa mia ha perso il lavoro. Ma per fortuna non è così.
– Ieri mi ha telefonato Meri per dirmi che il reparto montaggio è licenziato. Oggettivamente è uno stronzo. Dice che è tutta colpa tua.
– E tu sei d’accordo?
– Scherzi? Oggettivamente come si fa a mettere in mano al secondo assistente una cosa del genere? Questi non lo sanno fare, questo lavoro.
Alberto mi propone di incontrare Roberto Scarpetti, il delegato sindacale, di fare una vertenza. Accetto, molto volentieri.
L’appuntamento con Scarpetti è per pranzo, al bar di Cinecittà. Ordino una pizzetta appoggiato al bancone, tra Abel Ferrara che beve una birra, e Garrison che accarezza il suo minuscolo cagnetto. Quando arriva Scarpetti, ci sediamo.
Brizzolato, sorriso alla Big Jim, giacca da motociclista. Ricordo di averlo già incontrato sul set: girava per tutti i film in produzione, chiedendo alla troupe se fosse tutto a posto o se ci fossero problemi con le produzioni.
– E quindi la situazione è questa. Che famo?
– Mah, Albe’, mò faccio una telefonata a Meri e vedo, dice Scarpetti.
– Come fai una telefonata a Meri?
– Eh, nun posso fa’ ‘na vertenza così, devo sentire che dice la produzione.
– Ma te lo stiamo dicendo noi cosa è successo, no?
– Sì, ma infatti la sua posizione, e indica me, – è sicura: nun lo dovevano licenziare così, una vertenza la possiamo fare. Ma pure tu, Albe’, stai in una botte di fero.
– E allora?
– E allora mò chiamo Meri e sentiamo come vuole risolvere la faccenda.
– Ma come sarebbe a ddi’? Hanno lasciato a casa il reparto montaggio da un giorno all’altro, senza preavviso, dando la colpa al secondo assistente. E tu vuoi pure telefonare a Meri?
– Famo ‘na cosa: sentiamoci la prossima settimana, io faccio un colpo di telefono a Meri, e vediamo se ci possiamo accordare così, che magari recuperate due settimanali.
Mi intrometto:
– Guarda, non è per i settimanali…
– Sì, lo so, ma che fai, glieli lasci? Quelli ti spettano. Mò chiamo Meri e vediamo che dice.
Usciamo dal bar, accompagniamo Scarpetti alla moto. Mentre sfila il casco dal portaoggetti, aggiunge:
– Certo, poi io c’ho un sacco di richieste, in questo periodo, e ci stanno pure le polemiche, che certi non vogliono che il sindacato si interessi di lavoratori che non sono tesserati.
Per me non è un problema, facciamo la tessera, e ne sono orgoglioso.
– Allora chiamo Meri e ce sentiamo tra un paio di giorni.
Quando Scarpetti ci allontana, Alberto mi guarda, la tessera in mano:
– Abbiamo capito che tipo è il signor sindacalista. Lasciamo perdere.
Alberto decide di tentare altre strade, io invece insisto con Scarpetti, voglio fare le cose secondo tradizione. Continuo a chiamarlo nei giorni seguenti, lui “sta sempre impicciato” o sta per partire per qualche giorno, richiamami la prossima settimana.
Insisto, insisto, finalmente riesco a parlargli per più di un minuto.
– Ma ricordame un po’ ‘sta storia, che sai, c’ho un sacco di cose, non mi posso ricordare tutto.
– Il film della Cameretta… io e Alberto… Renato Meri….
– Ah, sì, mò ho capito. Guarda, alla fine non mi convince, tu dopotutto ti sei rifiutato di fare una cosa che ti era stata chiesta dalla produzione…. Non so, non sono sicuro di riuscire a farla, ‘sta vertenza. Chiamami la settimana prossima.
Lascio perdere.
Mi metto il cuore in pace, dimentico il film e non ci penso più.
Fino a che, due mesi dopo, non ricevo una telefonata.
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