Vita Vissuta nel Cinema Italiano 9

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Capitolo 9.
Oggi è in programma la conferenza stampa di presentazione del film. In albergo, nell’”elegante Sala del Camino”. Ci saranno politici locali e, ovviamente, la stampa. Da Roma verrà Pantaloni.
Decido di scappare. Decido di farmi consolare dalla pasta con le sarde di Totò, alla Vucciria. Alain deve presenziare, Maria senza di lui non è la stessa cosa, ma Totò cucina altrattanto bene. Le sue porzioni sono molto abbondanti, e la scarpetta con il pane al sesamo è il macigno finale: sogno già il materasso quando, cercando di accompagnare l’ultimo boccone con un sorso di vino, squilla il telefono. È la Cameretta.
– Dove sei? Ti stiamo aspettando!
– Per fare che?
– C’è Pantaloni, ti vuole conoscere, ti aspettiamo in albergo.
Pago e a malincuore, ciondolando per il peso che ho nello stomaco, mi dirigo verso l’hotel. Chiamo Alain:
– Che succede?
– Nientè, vogliono che sci sia anche tü, ti aspettiamo al restaurant de l’hotèl.
Il ristorante dell’hotel è decorato e stuccato quanto il resto. Una sala piena di tavoli tondi apparecchiati con roba di gran classe, l’unico occupato è il nostro: la Cameretta, Alain, Meri, Pantaloni e un posto vuoto: il mio. Mi presento, mi siedo. Anzi, vengo presentato da Meri come “il montatore”: correggo, gli lancio un’occhiataccia, e mi siedo.
Al centro della sala c’è un lungo tavolo ovale pieno di formine colorate: il cibo. Minuscoli contenitori con roba fluorescente verde, gialla, rossa, verdure tagliate con strumenti extra-terrestri, strumenti umani non possono dare quella forma lì. Io ho ancora in bocca il sapore delizioso della pasta con le sarde. Per educazione mi servo di una formina verde, e la spilucco. Sa di verde.
Pantaloni mi chiede:
– Mangi solo quello?
– Sì, gli rispondo, sai, preferisco tenermi leggero, a pranzo.
Pantaloni è molto alto, e il suo viso pare fatto apposta a indossare quegli occhialetti piccoli e tondi che poggiano sulla punta del naso. Sembra sempre a suo agio, ride poco, non suda mai nonostante la giacca, non gli squilla mai il telefono, non fuma, non gli brontola mai lo stomaco, non sbadiglia mai.
Parla la Cameretta, con una franchezza che trovo spiazzante. Immaginavo si dovesse fare politica, invece lei sembra a pranzo con amici.
– È tremendo, è un dittatore, è maligno e odia le donne. Fa di tutto per rovinare il film. Sai che non vuole che vediamo il montato?
Mi guarda per cercare conferma. Annuisco leggermente, spio Pantaloni. Ha un’espressione che vuol dire qualunque cosa, che è d’accordo oppure no.
Mi viene in mente un racconto di Chesterton, in cui un ladro deve intrufolarsi ad una cena di ricconi, e escogita un acutissimo sistema: si veste, come tutti, in frac, ma un frac corto, una via di mezzo tra quello degli ospiti e la divisa dei camerieri, e adotta un passo che sta esattamente a metà tra la camminata decisa, sfrontata dei ricconi e il discreto spostarsi della servitù. Il risultato è che può agire indisturbato: gli uni lo credono appartenente al gruppo degli altri, nessuno gli chiede l’invito, nessuno gli presenta ordinazioni. Mi ricorda questa scaltrezza nell’agire, questo riuscire a stare esattamente nel mezzo, senza dover rendere conto di niente, riuscendo ad assumere sempre l’atteggiamento giusto.
Però, a un certo punto, una sua frase mi colpisce:
– Quando parte il regista?
– Subito dopo le riprese.
– Ah, allora poi il montaggio andrà in mano ad Alberto, no?
Eccola, la politica. In questa sua domanda c’è tutto ciò che pensa. Mi tranquillizzo, e mi ricordo che Pantaloni è il capo assoluto, qui. È lui a decidere, e lui sa benissimo che il montaggio di un film del genere non può essere messo nelle mani di uno come me, alle prime esperienze. Questo mi consola, penso che non tutto è perduto, che il Sud America è solo un’illusione.
Però mi sento a disagio, penso che dovrei telefonare ad Alberto e lamentarmi del fatto che in quella situazione avrebbe dovuto trovarcisi lui, non io. Lui avrebbe saputo cosa dire, quanto dire e come. Io non so nemmeno cosa sto facendo.
La Cameretta continua:
– E poi questo film non gli interessa, cioè sta facendo il suo film, fa come vuole, non rispetta la sceneggiatura.
– Voi lo sapete che ogni modifica alla sceneggiatura mi deve essere comunicata e deve essere approvata?
Sì, Pantaloni è decisamente furbo.

Durante la conferenza vado in camera, cerco di sonnecchiare mentre su Sky trasmettono “The good shepherd”. Ma non riesco a dormire, né a guardare il film, quindi decido di scendere e vedere come procedono i lavori.
“L’elegante Sala del Camino” è piena di gente. A parte gli stagisti, non riconosco nessuno della troupe: devono essere tutti giornalisti e autorità. In cattedra le celebrità: Cameretta, Pantaloni, Aroña, Stocasto e gli attori. Sta parlando la Cameretta. La osservo, ha qualcosa di strano. Mi avvicino un po’. Ha i capelli castani e lisci, di lato spunta una ciocca nera e mossa: ha una parrucca!
In quel momento le sento dire al microfono:
– Come Dio, il Maestro Stocasto ha inventato la luce.
Faccio dietrofront ed esco.

Vorrei scappare, ma purtroppo la sera mi invitano a cena, e non posso dire di no. La formazione è composta da: Cameretta, Meri, Anne e Lorenza, Pantaloni, Alain, io e tre attori: Ginevra Volì, Marie Paparazzo e Enrico Maiè.
Vorrei sedere tra Anne e Maiè. Maiè è una persona meravigliosa, oltre ad essere un bravissimo attore. I suoi ciak non riesco a montarli: passo il tempo a gioire e a guardarlo. È bravo anche nei piani d’ascolto, il che la dice lunga sulla sua capacità. Tutti gli altri, quando non parlano, restano immobili, oppure esagerano le espressioni, sembrano attori di film muti, lui invece è misurato, sa quando reagire, quando assentire, che fare, come annuire. E poi è simpatico, andiamo subito d’accordo, è un piacere chiacchierare con lui.
Purtroppo, il dio dei posti a tavola non mi aiuta. Mi ritrovo seduto di fronte a Pantaloni, tra la Volì e la Paparazzo. Accerchiato. Mi presento alle due attrici, come prima cosa. La Volì mi ricambia con un caloroso sorriso, la Paparazzo mi ignora. Va bene, lo faccio anche io. La trovo davvero antipatica.
I piatti sono ovviamente quadrati, io molto imbarazzato. Ginevra Volì mi sembra gentile, e lo è, eppure tento inutilmente di attirare la sua attenzione, nessuno mi considera, mi sento in trappola. La guardo, e mormoro:
– Aiuto!
Lei però non coglie, mi guarda come fossi un alieno.
Per aumentare il mio imbarazzo, il cameriere sbaglia ordinazione, così quando la porta non la prendo, lui dopo aver servito tutti gli altri, torna e mi dice:
– Lo vedi che è tua? Sei l’unico senza niente.
Non so di cosa si tratti, il piatto è quadrato, dentro c’è una cosa alta e dura, una specie di torre di babele con un ripieno morbido che dovrebbe essere di pesce, e tante righine a zig zag come decorazione. Appena affondo la forchetta crolla tutto. Mi guardo attorno: ma come fanno gli altri a sembrare così tranquilli?
Pantaloni ed io siamo gli unici a bere, lui continua a riempirmi il bicchiere, e io faccio altrettanto. Ad un certo punto mi dice:
– Bene, vedo che io e te in questo siamo compagni.
– Eh, eh! Eh, già, dico, sudando.
– Compagni di bevute, eh, perché compagni (e chiude il pugno sinistro) proprio no…
Dall’altra parte del tavolo giungono discorsi, non capisco chi sia a farli, su Totti, sul fatto che Totti è il gladiatore moderno, vero e unico erede degli antichi romani.
Verso la fine della cena Pantaloni mi chiede notizie delle mie precedenti esperienze lavorative. Faccio il nome di qualche regista, di qualche produttore. Alcuni sono abbastanza conosciuti da suscitare reazioni. Uno in particolare fa sbottare la Cameretta:
– Quello non lo sopporto, è proprio un razzista!
– Bè, razzista…, precisa Pantaloni, diciamo che è uno intollerante.
– Comunque se hai tenuto a bada lui, aggiunge la Cameretta, cioè puoi benissimo tenere a bada Aroña, che è ancora peggio.

Aroña a Palermo non lo vedo per niente. Credo si stia crogiolando nell’idea che partirò con lui, e quindi può permettersi di non montare più, qui.
Viene a trovarmi una sola volta, accompagnato come sempre dal fido Miguel. Si siede, nemmeno mi chiede di accendere l’Avid, e mi dice:
– Entonces? Cosa hai deciso?
– Di che?, faccio finta di niente.
– Como de chi? De venir conmigo! Noi vamos a montar in Sud America. Yo ho piensato de trovarte casa in un quartier muy bonito, te mando le fotos para email, così lo puoi veder. Si no te gusta, me ne dici un otro.
– Meri ancora non mi ha detto niente, di preciso…
– Lascia perder Meri, es una grande occasione para ti! Piensa: l’America, vai a trovar Miguel a Hollywood! Aquì cosa pienses de far? L’asistente para siempre?
– No, è che… la mia ragazza…
– La tua chica! Porta pure ella, tu voy à aver un apartamiento! Todo es pagato!
Si intromette Miguel, con il suo tatto:
– Hai sentito Alberto? Non è arrabbiato perché gli hai preso il lavoro? Cosa sta facendo adesso?
Ridono.
– Bè, sta montando…
– Montando!
Ridono. Il gatto e la volpe.
– Devo cercare un Avid, devo avere tutto il materiale del film con me, il laboratorio finirà qualche giorno dopo la fine delle riprese…
– No hay problema. Tu has una semana de tiempo dopo que yo soy partido. Ma dime le cose como stanno, porqué si non vieni, me devo trovar un otra persona. Yo ne parlo con Meri, tu puro. Y poi decidemos.

Quando resto solo sono a pezzi. Lascio la sala montaggio, incontro Meri nella hall.
– Ahò, Hudsucker Proxi, che se dice?
– Senti, quello insiste.
– E tu che stai a ffa’ ancora qua? Devi parti’, nun ce sta altra soluzzione.
– Ad Alberto lo hai detto?
– Arberto è fori, si nun l’hai capito. F-U-O-R-I. Mò ce stai solo tu. Perciò te chiamo Hudsucker Proxi. Sta tutto in mano tua.
– In che senso è fuori?
– Ahò, o voi capi’? Aroña nun ‘o vo. Che je posso di’? Mò so cazzi tua.
– Qualcuno dovrà dirlo ad Alberto, avrete degli accordi…
– Sì, nun te preoccupa’ ce penso io, mò ‘o chiamo.
– Chiamalo, eh.
– Sì, mò ‘o chiamo. Tu fatti ‘e valigie.

La sera, al ritorno dal ristorante, mi avvicino alla Cameretta. Lei ha passato tutto il tempo a fare battute sulla mia partenza, battute innocenti, ma che mi hanno infastidito. Però credo si sia creata una sorta di complicità tra di noi, due vittime dell’orco cattivo, e quindi mi permetto di dirle:
– Salvami, non farmi partire.
– Tu mi devi salvare, cioè io sono nelle tue mani.
– Ma io non voglio partire con Aroña.
– Nessuno ti obbliga, però sei l’unico che mi può salvare. Fallo per me. Lo vedi con che gente ho a che fare? L’hai sentita la conferenza, cioè quello che ho dovuto dire di Stocasto, no? Questi sono tutti fatti così, cioè gli devi dire le cose che gli fanno piacere se te li vuoi tenere cari.
Lo dice con dolcezza, sembra una principessa imprigionata nella torre di un alto castello. E io dovrei essere il cavaliere, ma non quello senza macchia e senza paura: l’altro.

In hotel troviamo Meri, giocherella col suo telefono, stravaccato sui divani della hall. Si rivolge alla Cameretta:
– Ahò, che dice Hudsucker Proxi, qua?
– Ci salva, parte.
– ‘O sapevo, è ‘n grande. Trovamose domani ar bar ppe’ ffa’ colazione, ché dovemo parla’.

E così, l’indomani mi sveglio presto e aspetto Meri al bar. Con lui c’è la Cameretta. Lei mi si siede di fronte, indossa un vestito incredibilmente scollato. Mi chiedo se l’abbia fatto apposta. E Stavolta ci casco, l’occhio mi cade.
– Tu devi salvare il film, cioè è tutto nelle tue mani.
– T’o ho detto che sei Hudsucker Proxi. Tu devi anna’ cco’ Aroña a fini’ er film.
– Chiedimi quello che vuoi, io solo di te mi posso fidare.
– Devi anna’, nun vojo senti’ storie, sennò sto film nun ‘o finimo.
– Ma non sei obbligato, puoi scegliere.
– Scusate, li interrompo, ma che vuol dire che vado, che vuol dire che devo finire il film? E Alberto? Con lui ne avete parlato?
Meri: – Arberto è fori, per lui nun ce sta gnente da fa’, Aroña nun ‘o vole. Arberto è fori perché l’ha scelto ‘a produzzione, er montatore mò sei tu, a te t’ha scelto er regista.
Cameretta: – Tu parti con Aroña, fate la vostra versione del film, poi torni e Alberto la finisce.
Io: – Alberto è fuori? E chi lo firma ‘sto film? E il contratto?
Meri: – Se vai cco’ Aroña e finite er film, ‘o firmi tu cor regista.
Cameretta: – Se non viene approvato, Alberto lo aggiusta e lo firma lui.
Meri: – Nun te devi preoccupa’ de gnente. Te porti l’Avid che c’hai qua, te trovamo ‘n’appartamentino, te giri ‘a città, e monti. Oh, tutto dev’esse’ pronto in un mese, eh? Quann’hai finito, torni qua e sistemamo tutto.
Cameretta: – Devi salvarmi, solo tu lo puoi fare, cioè io lo so quanto ci tieni a questo film, lo so che sei una persona buona.
E si mette una mano sul cuore. Vicino al cuore.
Mi gira la testa, mi sembra di essere a una partita di tennis. Chiedo tempo.
Meri: – Aho, ar massimo a Roma me devi da’ ‘na risposta, me raccomanno.
Chiamo Alberto, ci riprovo.
– Tu non capisci, gli dico, non capisci quello che mi stanno chiedendo! Vogliono che vada col regista a finire il film, io non lo posso fare.
– Ma che dici, figurati se chiedono a te di finire il film! Ricordati che oggettivamente non lo possono fare, sono provocazioni. Vedrai che quando sarete qui si saranno dimenticati di tutto.
– Albe’, non hai capito: Aroña a Roma non ci viene, vuole partire subito.
– Vabbè, figuriamoci. Io aspetto una telefonata di Meri, mi deve dire quali sono le intenzioni del regista, questo film deve essere finito in qualche modo.
– Va bene, come vuoi. Intanto io a questi che dico?
– Prendi tempo, non dire sì né no.

Prendo tempo, e non dico sì né no. Sorrido, quando viene sollevato l’argomento. E così tutti si convincono che alla fine partirò. E quindi decidono che la mia presenza sul set non è più necessaria, mi fanno rientrare a Roma due giorni prima degli altri.

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