Vita Vissuta nel Cinema Italiano 6
Capitolo 6.
Faccio la conoscenza della Cameretta una sera, uscendo per andare da Peppe.È nella hall, sta sfogliando una rivista di gossip, incastrata tra le pieghe di una poltrona rossa. Quando le passo accanto, lei alza lo sguardo. La copertina della rivista ospita le foto esclusive del bikini giallo di una prorompente soubrette.
Non ci siamo mai incontrati prima, la Cameretta ed io. Le abbozzo un sorriso e un timido saluto con la mano. Non dà segni di avermi notato. Passo oltre.
Con la coda dell’occhio, però, noto che richiude la rivista, si alza e mi segue. Rallento. Si ferma al bancone della reception, io mi fermo sulla soglia, accendo una sigaretta e fingo indifferenza. Mi guarda. Faccio un passo verso di lei, forse è il caso che mi presenti. Ma lei fa un passo indietro. Ci guardiamo. Faccio un passo indietro, verso la strada, lei fa un passo avanti. Ci guardiamo. È una situazione imbarazzante. Provo a rompere il ghiaccio:
– Ciao, io sarei l’assistente al montaggio.
– Lo so chi sei, cioè Alberto mi ha parlato di te.
È altissima. Indossa un abito molto stretto in vita, talmente stretto che mi manca il fiato solo a guardarla. Però noto che mette in risalto le sue famose doti. Ha una voce acuta e nasale, un accento imbastardito dagli anni passati all’estero: inflessioni meridionali ormai mescolate a vaghi echi di pronuncia inglese e romanesca. Usa solo vocali aperte, le pronuncia spalancando completamente la sua grande bocca.
– Come procede il lavoro?
– Bene, bene, dico.
– Riesci a montare?
– Direi di sì, ma, sai, io sono l’assistente.
– Cioè, lo so. Però Alberto si fida di te, e allora cioè mi fido anch’io.
È strana: sta lì, le braccia incrociate, ha lunghissime mani, mentre parla alza e abbassa gli indici. Però si guarda continuamente attorno, come se aspettasse qualcuno, o come se avesse paura di qualcosa. Se mi avvicino, lei si allontana, e viceversa.
– Va tutto bene?
– Non posso farmi vedere che parlo con te, sussurra.
– Da chi?
– Da Aroña. È maligno. Mi odia, e se ci vede assieme, cioè pensa che te sei dalla mia parte.
Non so che dire.
– Si sta comportando bene con te, cioè, o è cattivo anche con te?
– Mah, veramente…
– Mi raccomando, non farlo arrabbiare, non sai di cosa è capace. Cioè a me mi ha mandato all’ospedale.
– Sì, lo so. E adesso come stai?
– Ora sto bene, ma stavo lì lì. È maligno, cioè, e odia le donne. L’hai notato che odia le donne?
– Mah, non è che ne abbiamo parlato…
– Sì, odia le donne, è un maschilista. Me l’ha detto pure sua figlia, che l’ha fatta piangere.
Pausa.
– Come viene il film, viene figo?
– Mah, sì.
– E quella scena che io piango come viene? A forza ha voluto metterci il vento… Di regia non ci capisce niente. Dimmi tu, come fai a mettere il vento a un attore che piange?
È una domanda retorica, non rispondo.
– …
No, è una domanda vera. E che rispondo?
– Eh, già.
– Vedi?! Non puoi. Monta la prima di quelle, quella senza vento. Quale hai montato?
Giuro: non ho la più pallida idea di cosa stia dicendo.
– La prima, ho montato la prima, quella senza vento.
– Bravo. Lo vedi che Alberto ha ragione che mi fido di te? Ora vai, cioè, che se Aroña scende e ci vede ti manda via che pensa che sei dalla mia parte. Però a Palermo ci vediamo e parliamo con calma.
Mi sfiora il gomito con le sue lunghe dita. Si volta, torna alla sua rivista.
Io resto sulla porta ancora un po’, finisco di fumare. E penso: che strano incontro. Non me l’aspettavo così, lei. Credevo fosse molto più sicura di se, invece mi sembra una ragazzina. Mi sento a casa, come se fossi con una mia sorella maggiore.
Il televisore Export fa davvero schifo. I colori variano, a seconda del tempo atmosferico, dall’acceso-tipo-cartone-animato al bianco e nero, ma a fasi alterne, così che a volte ho il cielo blu e il prato grigio, a volte il cielo grigio e il prato verde. A volte viola, perché compaiono casualmente e a macchia di leopardo certi curiosi aloni violacei, a rendere più creativa l’immagine.
Aroña commenterà dicendo solo:
– Cuesto es el mas strano televisor que yo ho visto en toda la my vida!
Dal canto suo, l’Avid non sta benissimo. Ho notato che ogni quattro minuti di riproduzione di un qualunque filmato, quattro minuti cronometrati, si blocca, si pianta, non si può fare più niente, se non staccare la spina e riavviare tutto. Il problema è che quattro minuti sono troppo pochi perché la cosa possa passare inosservata.
Subito sottopongo la questione a Meri:
– Er regista porta rogna. L’artro giorno, come è entrato in ufficio, all’assistente suo je s’è bloccato er computer, l’ha dovuto porta’ a ripara’.
Ripete l’ultimo concetto poggiando la mano, di taglio, accanto alla bocca.
– L’ha portato a ripara’! È lui che porta rogna. Ahò, avete sentito? Porta rogna, ha fatto blocca’ pure l’Avid!
– E che faccio?
– E che ne so? Monta cco’ ‘e mani su li cojioni. Contro ‘a rogna nun c’è sta gnente da fa’.
Dopo altre mille telefonate decido di arrangiarmi. Escogito un sistema: metto il mio telefono proprio davanti alla tastiera, il cronometro bene in vista. Ogni tre minuti e mezzo invento una scusa per premere “pausa”: una domanda al regista, un’osservazione a Miguel, una cosa che ora non mi ricordo ma volevo proprio dirla vabbè mi verrà in mente scusate riprendiamo, oh cazzo non l’ho fatto apposta a premere pausa mi è partita la mano. E così via, per tutto il mese, e stavolta nessuno si accorge di niente.
Con Aroña, nonostante l’Avid ora dia qualche segno di vita, in verità lavoro una volta sola, una sola volta in due settimane. Una media un po’ bassa, me ne rendo conto. Arriva col fido Miguel, si siede accanto a me, il musicista sul divano, e montiamo una sequenza, quella dell’arrivo alla villa. Monto seguendo alla lettera le sue regole. Il risultato è orrendo, si tratta di mettere insieme pezzi di inquadrature senza guardare né riflettere, però Aroña è contentissimo, dalla gioia fischietta motivetti della rivoluzione messicana, ride soddisfatto, sembra un bambino. Ad un certo punto, mentre sto rivedendo un dialogo, Miguel mi chiama e mi domanda, in inglese:
– Come ti senti, ora che hai preso il posto del tuo maestro? Ti senti in colpa o sei contento?
Mi paralizzo. Non mi aspettavo tanta franchezza.
– Veramente io sono sempre l’assistente, il montatore resta Alberto.
Ormai però temo che questa storia non regga più.
– Seguro, ma lui no està faciendo nada, dice Aroña.
E riprendiamo a lavorare, come se niente fosse. Riprendiamo, ma io ho un peso sullo stomaco.
Poco prima di lasciarmi, Aroña allunga un braccio verso di me, io mi fermo, le mani sulla tastiera, volto piano piano la testa. Ha un’espressione seria, la mano sospesa, sembra un prestigiatore nel momento di far sparire qualcuno.
– Escucha me, mi dice. Ancora non ne ho ablato con Meri, pèro aquì es muy difficil de trabajar. Como vedi, no abbiamo montato nada, fino a ora. Tu tieni un passaporte?
– Sì, ma non qui, a casa. A che mi serve?
– Te sierve porque yo quiero preguntar a Meri se possiamo continuar el montaje en Sud America, dove yo vivo. E yo quiero que tu vieni conmigo.
Sbaglio, o c’è un’eco? Yo quiero que tu vieni conmigoooo… Yo quiero que tu vieni conmigoooo… Yo quiero que tu vieni conmigoooo…
– No te preocupes, yo pienso a todo: a la casa, al viaggio, a todo. Piensace, entonces ne parliamo.
– Mah… ecco… io, veramente… forse dovrei riflettere… dovrei… parlarne… con…
– Tu piensace, ma non mucho tiempo, que il tiempo està finendo, aquì. Yo ne ablo con Meri, e voy a veder se è possibile, poi decidemos.
Se ne vanno, io resto seduto ancora un po’, temo non mi reggano le gambe.
Decido di aspettare, di non fare niente per il momento. Come dice Alberto “il signor regista ce sta a prova’”, le sue sono provocazioni. Quindi è inutile scatenare allarmismi.
Il mattino dopo incontro Meri a colazione. Gli passo accanto, il caffè in mano, e lui, chino su un cornetto, la bocca piena e il muso sporco di zucchero a velo, indica la sedia accanto alla sua, accompagnando il gesto della mano con un mugugno.
– Allora, è pronto, ‘sto passaporto?
– Pure tu ti ci metti? Che sono ‘ste storie?
– Storie? Quello te vo porta’ cco lui.
– E dài, non scherziamo.
– A coso, parlamese chiaro: quello l’ha capito che ‘sto film qua nun ‘o finite. Quant’avete lavorato? Du’ giorni?
– Due ore.
– Appunto. Mò te vo porta’ ar paese suo. E tu ce devi anna’. Poche storie.
– Ascolta, telefona ad Alberto, parlane con lui. È lui il mio capo reparto, se decide, io vado.
– Ah, sì? Tu intanto fatte er passaporto. Quanto ce metti?
– Mah, non so, ci vorranno tre, quattro settimane, devo andare in questura, è un po’ lunga.
– Lunga? Ahò, vedi che mò se po ffa’ alla Posta! Mò vai alla Posta qua, e fai domanda. E si ce mettono più de tre ggiorni, m’o dichi, ché c’ho ‘n’amico che sta alla questura, che te da ‘na mano.
– Guarda, dovrei prendere dei documenti, delle cose, adesso non si può fare.
– Dei documenti? E che cazzo devi prenne’, ‘a fedina penale? Sbrighete, va!
È il caso di chiamare Alberto.
– Qua è venuta fuori questa cosa… che praticamente… Aroña vorrebbe… cioè, no?, lui ha chiesto… cioè Meri… insomma…
– Embè?
– Come “embè”? Alberto, questi mi vogliono mandare in Sud America.
– Si sa già quando vuole partire, il signor regista?
– Subito dopo le riprese.
– Quindi non si ferma a Roma a guardare il materiale con me?
– Alberto, non hai capito: Aroña vuole montare con me in Sud America!
– Ma figurati! Figurati se fa finire il film a te! Sono provocazioni, quello ce sta a prova’.
– Alberto, mi ha detto di farmi il passaporto, pure Meri me l’ha detto.
– Stiamo a scherza’? Oggettivamente sono provocazioni. Mò il signor regista pensa di far montare un film al secondo assistente!
– Anche il fatto di venire qui sul set, era una provocazione. E intanto….
– E intanto che? Nessuna produzione può oggettivamente permettere una cosa del genere. Vediamo che dice Meri.
– E io?
– E tu aspetti, fai finta di niente. Oggettivamente, la cosa assurda è che il signor regista pensa di partire senza aver scelto il materiale con me. A me una cosa così non m’è mai capitata!
Aroña non si presenta più al montaggio. Mi telefona qualche volta, la sera, per sapere se sto lavorando.
Un venerdì pomeriggio bussano alla porta, vado ad aprire. Trovo una signora con una massa vaporosa di capelli rossi, tutta forme, fasciata da un abito leopardato, seguita da due bambini e uno che, suppongo, sia il marito: pelato, magro magro, con una grande valigia in mano, un abito beige di un paio di taglie troppo grande. Dietro il gruppo c’è Aroña, che mi urla:
– Fai veder a questi miei amigos aquì un pochito del film, por favor!
Faccio entrare la famiglia di turisti e allegramente guardiamo alcuni ciak a caso, mentre i bambini si rincorrono per il salotto. Quando finiamo mi ringraziano e vanno via. Non ho mai capito chi fossero, quelli.
Tutte le sere incontro Anne e Lorenza da Peppe. Mangiamo, parliamo, scherziamo. Spesso con noi ci sono altri ragazzi della troupe, soprattutto del reparto produzione. Anne mi chiede notizie del film, ma precisa sempre che sa di non avere il permesso di vedere niente. Oso dirle che sarei disposto a trasgredire gli ordini, ma lei crede che stia scherzando, e ride. Anne mi chiede più volte di rivederci, quando saremo a Palermo, nostra prossima tappa. Non sappiamo come sarà la situazione lì, dove alloggeremo, quanto tempo avremo a disposizione, chi ci sarà. Sull’orlo di uno svenimento, le prometto che sarà così, che ci rivredremo.
La troupe parte di sabato. In albergo restiamo solo Aroña e io, partiremo insieme il giorno dopo: un piccolo scherzetto di Meri, che soddisfatto mi confessa:
– Ahò, dovete parla’ der film, der viaggio, c’avete ‘n sacco de cose da divve. Così ‘o potete fa’. Nun te piace?
Sabato il cielo è grigio, minaccia pioggia. Mi hanno già portato via il computer. Ho anche spedito la valigia e il mio portatile, con me ho tenuto solo un libro. Passeggio per Pozzuoli senza una vera e propria meta, non ho voglia di leggere, né di mangiare.
Però a un certo punto mi ritrovo, non so come, seduto a un tavolo della trattoria di Peppe, a ingolfarmi di alici fritte. Dalla vetrina vedo l’ingresso dell’hotel. Arriva un taxi, dall’albergo escono Lorenza e Anne. Si fermano un istante a parlare con l’autista, poi Anne, come se avesse dimenticato qualcosa, consegna la sua borsa a Lorenza, e corre via. Viene verso il ristorante. Entra come una furia, spalancando la porta con tanta forza da far cadere il quadretto con gli orari di apertura. Il rumore fa voltare tutti, anche Peppe, che in quel momento stava prendendo alcune ordinazioni. Lei gli va incontro, lo abbraccia, gli dice “K-razie!” e va via. La guardo salire in taxi e partire. Mi volto: Peppe è ancora fermo nella stessa posizione, immobile. Poco a poco ricomincia a sbattere le palpebre.
Il giorno dopo, domenica, l’autista di Aroña ci accompagna all’aeroporto. È quello che alla villa parlava delle zinne delle attrici. Per tutto il tragitto guarda il mio telefono e dice:
– Ecco ‘ndo cazzo l’avevo messo, ce l’avevi tu!
– Ma cosa?
– Er telefono mio!
– Veramente è il mio.
– Ah, è uguale al mio.
E dopo un po’ ricomincia.
Prendiamo lo stesso volo, ma per fortuna Aroña e io non siamo seduti accanto. Quando atterriamo a Palermo troviamo ad attenderci due automobili: una per me, una per lui. Siamo diretti allo stesso hotel. Lui arriverà un’ora e mezzo dopo di me: il suo autista ha imboccato l’autostrada nel senso sbagliato.