Vita Vissuta nel Cinema Italiano 3

insider3

Capitolo 3.

Sabato mattina partiamo in macchina, Alberto e io. Meta: Sant’Agata dei Goti, nel bel mezzo del Sannio, feudo (come è stato definito) di un grasso politico salterello. Approfittiamo del viaggio per il consueto briefing di dietrologia.
Alberto mi spiega che dopo questo litigio e la sospensione del film, i rapporti tra Aroña e la Cameretta sono irrimediabilmente compromessi. Non sarà facile portare a termine il lavoro. Il nostro compito è quanto mai delicato, da giocarsi nel campo della più accorta diplomazia: dobbiamo assolutamente fare in modo che il regista non trovi in noi altri motivi per ricattare la produzione, dobbiamo tenere in acqua la barca, possibilmente farla arrivare in porto.
Questa frase non mi tranquillizza affatto. So che le scene finora montate non sono molte. E soprattutto so di non essere riuscito a controllare l’hard-disk in cui è contenuto il materiale del film: ieri sera Alberto è scappato via dalla sala montaggio portando con sé tutta l’attrezzatura, proprio mentre stavo finendo di lavorare. Ho uno spiacevole presentimento, a riguardo. Per distrarmi chiamo Meri:
– Renato?
– Chi lo vuole sapere?
– Volevo essere sicuro che abbiamo un posto in cui lavorare, in albergo. Una stanza tranquilla, una cosa del genere.
– Nun te preoccupa’, c’ho ggià pensato. All’hotel sanno tutto.
– Ti ricordi che ti avevo anche chiesto un televisore? Ce l’abbiamo?
– Televisore? E a che tte serve?
– Non si riesce a montare sul portatile, sul televisore si vede meglio, credo che il regista preferisca così.
– Ah, mò chiamo l’hotel e glielo dico, nun te preccupa’. Approposito, Aroña nun viene a’e dodici, c’ha ritardo, viene all’una.
– Non c’è problema, lo dico ad Alberto.

Lungo la strada riceviamo altre telefonate. L’appuntamento viene ancora spostato: alle due, poi alle due e mezzo. Queste notizie gettano Alberto in un silenzio poco rassicurante.
L’hotel a cinque stelle è piantato ai bordi di una statale. Appena arriviamo mi precipito dal portiere: chiedo della stanza in cui lavoreremo, e del televisore.
– Mi dispiace, nessuno ci ha detto niente.
Non avevo dubbi.
– E quindi?
– Comunque le troviamo subito una sistemazione. Miche’, vedi un po’.
L’albergo è praticamente vuoto, ci fanno sistemare in una sala riunioni nel seminterrato, un fattorino mi porta un televisore che ha preso in una delle stanze. Il televisore però non ha la presa scart, quindi non serve a niente, e in tutto l’hotel c’è solo quel modello lì, per cui dovremo arrangiarci. Comincio a preoccuparmi.
Abbiamo appena il tempo di mangiare qualcosa al bar: Aroña arriverà a momenti. Fumiamo una rapida sigaretta sulle scale dell’ingresso.
Dopo un po’ ne fumiamo un’altra. Poi un’altra.
Alle tre e mezzo spunta Meri, porta a spasso il suo elegantissimo trolley. Alberto lo guarda e dice soltanto:
– Embè?
– Nun s’è fatto vedere, ancora?
– Non è arrivato, no!
Meri estrae il cellulare, e mentre compone un numero mormora:
– Ma come no? Sta in albergo da mezzogiorno! Starà a dormi’…
Con cautela mi volto verso Alberto. È talmente rosso che sembra abbronzato.

Alle quattro e mezzo si aprono le porte dell’ascensore. Maglia nera, capelli neri tinti, panzone in fuori. Il regista, siore e siori: Alonzo Aroña. Finalmente lo incontro! Sorride sotto i baffoni alla Groucho Marx. Più che un volto, il suo è uno stereotipo: ha davvero la faccia del cattivo pasticcione di un film western. Mi ritrovo a pensare a quanto somigli incredibilmente a se stesso: lo ricordo tutto sudato, i capelli ricci, fasciato dai cinturoni incrociati sul petto, mentre con il sigaro accende la miccia di un candelotto di dinamite.
Ci saluta come se niente fosse, e così facciamo noi, agitando le mani. Con lui c’è Miguel, il suo musicista di fiducia, un trentacinquenne argentino che vive a Los Angeles, e segue tutto il film con la giovane moglie: evidentemente deve assaporare l’aria del set, non dimenticando quella di casa, per avere l’ispirazione.
Ci accomodiamo nella sala che ho preparato. Aroña è uno di poche parole, appena si siede incrocia le braccia sulla panza e guarda fisso il monitor del computer, senza dire niente. Non è certo un atteggiamento che mette agio, e infatti sulla stanza cala un appiccicoso gelo. Alberto inizia a parlare, cerca di illustrare il lavoro che ha fatto finora, ma tra il nervosismo e la difficoltà di esprimersi in una lingua che non è la propria, inizia a balbettare uno strano pidgin composto da inglese, spagnolo, portoghese con qualche punta di romanesco.
Aroña non fa nessun movimento, lo lascia parlare. Dopo qualche minuto lo interrompe semplicemente alzando la mano destra, e dice:
– Can we see the scene number cinco?
Subito! Quando l’immagine comincia a scorrere sullo schermo, Aroña si sporge verso Miguel e gli sussurra quelle che credo siano le sue intuizioni musicali. Ma, improvvisamente, la scena diventa muta: non c’è più audio. Alberto si blocca all’istante, quindi scuote il mouse, schiaccia a caso qualche tasto mentre io inizio a espellere dai pori sulla fronte tutto il sudore che ho in corpo. Fa caldo, lì dentro, caldissimo.
Aroña non si scompone, dice semplicemente:
– No siento nada.
Alberto balbetta qualcosa in pidgin e poi, senza nemmeno guardarmi, inizia a ripetermi ossessivamente, con tono minaccioso:
– Nun famo scherzi, nun famo scherzi, nun famo scherzi, nun famo scherzi…
Non ho bisogno di controllare cosa sta accadendo: conosco già la causa del problema.
– Alcuni file audio non si sono copiati. Ieri sera non ho potuto verificare tutto. Purtroppo non c’è molto da fare.
– Nun famo scherzi, nun famo scherzi, nun famo scherzi, nun famo scherzi…
Aroña si volta verso di me dicendo:
– So, can you fix it?
Gli spiego, col mio rozzo inglese, che l’hard-disk ha avuto un problema, forse durante il viaggio, e alcuni file si devono essere corrotti, quindi sono inutilizzabili. Chiedo scusa, sono cose che capitano. Il sudore sulla mia fronte stride con la freddezza con cui racconto la balla.
Ma lui se la beve.
– Bueno, no hay problema: let’s see the scene number trece.
Tiro un sospiro di sollievo, e andiamo avanti.
Il siparietto però si ripete per la scena 13.
– Nun famo scherzi, nun famo scherzi, nun famo scherzi, nun famo scherzi…
Passiamo alla 85. Immagino tutto ciò che mi aspetterà dopo, quando resterò solo con Alberto. Anche la 85 ha lo stesso problema, così come la 102. La 121, da parte sua, non esiste proprio. Alberto non mi guarda più, e io vorrei sotterrarmi.
Nonostante la mia balla, la tranquillità di Aroña manda segnali di cedimento. Le dita tamburellano sullo stomaco sporgente, da sotto i baffi proviene un fischiettio irritato. Finalmente ha una scusa per mostrare ad Alberto tutta l’antipatia che prova per lui. E quando troviamo una scena su cui lavorare, una scena brevissima, appena tre inquadrature, la situazione diventa grottesca: invece di dirgli direttamente “taglia qui, fammi vedere quello, attacca questo”, si rivolge a me, in un misto di inglese e spagnolo: “tell him to…, preguntale…, why is he doing…”
Anche Alberto si lascia aggrovigliare in questo meccanismo, e io vengo improvvisamente promosso da assistente a interprete. Ma in verità mi sento come un bambino tra i due genitori che stanno divorziando.
– Gli puoi dire che… Chiedigli se… Cosa intende per…
Alle sette, dopo poco più di due ore di lavoro, Aroña si alza e si scusa: deve mangiare. Ma sulla porta si ferma, si volta verso di me:
– Dile che mañana abbiamo mucho lavoro da far. Ci enquentreremo aquì domani mattina alle nueve, e voi dovete aver montato todas las escenas che ti ho detto prima.
Se ne va, seguito da Miguel.
Io mi siedo, mi preparo a lavorare, ma Alberto mi blocca con un gesto della mano:
– Che stai a ffa’?
– Dobbiamo montare, no?
– Ma che montare! Andiamo a mangiare, monterò stanotte in camera.

Saliamo al ristorante. La sala è enorme, al centro troneggia un pianoforte a coda. Due soli tavoli apparecchiati, gli altri coperti da teli bianchi, come nelle case abitate da fantasmi. Il cameriere ci fa sedere a un tavolo rotondo, accanto all’unico altro tavolo occupato. Occupato da Aroña, Miguel e consorte. Loro ci fanno un cenno di saluto abbassando le teste, ma non ci chiedono di unirci. Ceniamo così, in silenzio, o sussurrando qualche cattiveria sul regista. Alberto è furente, mentre accanto a noi quelli cantano in spagnolo. Quando i tre si alzano per andare al pianoforte, noi lasciamo la sala.

Il mattino seguente sono un po’ in ritardo, ho guardato la televisione praticamente tutta la notte, e mi presento a fare colazione alle nove in punto, quando invece avrei dovuto essere già operativo. Mi scuso con Alberto, che mi degna solo di un’occhiataccia e riprende a leggere il giornale. Bevo velocemente un caffè, afferro un cornetto e mi precipito ad accendere il computer. Dopo un po’, non vedendo arrivare nessuno, torno al bar: Alberto è sempre lì, ha abbandonato il giornale e sta leggendo un libro. Chiedo un altro caffè, prendo in prestito la Repubblica e mi sistemo sulle scale fuori dall’hotel a leggere e fumare. Poco dopo arriva Alberto, sono quasi le dieci.
– Niente, mi dice, questo signor regista proprio non ha rispetto. Ci ha oggettivamente detto di farci trovare pronti per le nove, è in ritardo di un’ora, voglio vedere come si giustifica.
– Hai montato, stanotte?
– Oggettivamente non avevo proprio voglia, a queste condizioni.
Aspettiamo. Aroña scende alle undici passate, ma deve ancora fare colazione. Non ci guarda nemmeno: dall’ascensore va direttamente al bar. Io torno davanti al computer, pronto ad affrontare ogni situazione. Verso le dodici ecco arrivare il regista, stavolta da solo, rasato di fresco, i baffi pettinati, un bel grugno promettente. Si siede, chiede ad Alberto di vedere quello che noi abbiamo fatto ieri sera.
Alberto tira fuori una sequenza che aveva già montato nelle settimane precedenti, e Aroña nemmeno se ne accorge. Fa alcuni commenti. Anzi, a dire la verità smonta completamente il lavoro di Alberto. Che, ovviamente, era un bel lavoro.
– Hay certe regole que devi saber, se vuoi montar conmigo, gli dice Aroña con il tono del maestro che si rivolge a uno scolaro un po’ ottuso.
Prende un foglio bianco, un pennarello, e inizia a tracciare alcune linee per spiegare meglio la sua teoria.
-Primera regla: siempre veder el volto di chi està parlando. Alguno parla, lo vediamo, e quando finisce tagliamo su un otro. Segunda regla: hay que montar ogni escena partendo dalle inquadrature mas larghe andando verso quelle mas strette e poi el contrario. Ogni escena è girata partendo dal totale al primer plano: ogni escena deve essere montata partendo dai totali, arrivare al primer plano, e poi di nuevo, ai totali. Tercera: è inutile guardar todos i ciak, prendere siempre l’ultimo, es el mejor. Recuerda: solo l’ultimo, los otros non guardarli nemmeno, si perde solo tiempo. Cuarta regla: in alcuni momenti, que yo le digo, estas reglas possono esser violate, ma solo in quei momenti. Tieni questo foglio, così te recuerdas.
Alberto prende il foglio, lo guarda e dice, un maligno sorrisetto sulle labbra:
– Sì, però me lo devi firmare.
Mi scappa da ridere, non credo di riuscire a trattenermi. Ho assistito a una lezione di montaggio for dummies fatta dal cattivo dei film western al maestro della moviola. Se in questa stanza non ci fossi stato io, probabilmente si sarebbe consumato un omicidio.
Aroña prende il foglio, lo firma e lo restituisce. Quel foglio resterà appeso come memento davanti all’Avid per tutte le successive settimane di lavorazione.
Apposta la firma, il regista si alza e si scusa: deve andare a fare dei sopralluoghi e non può trattenersi oltre. Raccogliamo le nostre cose e uscendo intercettiamo Renato Meri:
– È partito, Aroña? Eh, no, perché m’ha fatto prenota’ er ristorante all’una precisa, se mò fa tardi…
Guardo l’orologio, segna l’una meno dieci. Alberto, sconsolato, si fa consigliare una trattoria in paese.
Appena entriamo il cameriere ci chiede se siamo “col film”. Alla nostra risposta affermativa, ci porta un posacenere, dicendo che noi lì possiamo fumare se vogliamo, tanto non viene a controllare nessuno. Alla fine ci fanno lo sconto, e ci chiedono di portare la Cameretta a mangiare lì, un giorno o l’altro.

Potrebbero interessarti anche...