ANTICHRIST
Danimarca/Germania/Francia/Italia/Svezia/Polonia 2009.
Cast: Willem Dafoe, Charlotte Gainsbourg.
Soggetto, Sceneggiatura e regia: Lars Von Trier.
Musiche: tratte da Georg Friedrich Handel.
Direttore della fotografia: Anthony Dod Mantle.
Produzione: Meta Louise Foldager.
Durata: 104′
Qualche acuto giornalista (ne esistono ancora) francese, consiglia, prima della visione di questo ultimo Trier, di buttare una occhiata all’imprescindibile pellicola ‘La stregoneria attraverso i secoli’ di Benjamin Christensen, titolo che si studia, si deve studiare (e visionare), quando si frequenta un corso di cinema all’università.
Mai consiglio fu più azzeccato.
Gente di cinema per chi fa e vede il cinema.
Gente che ne capisce, magari, qualcosa.
Io aggiungerei, guardiamo ‘Biancaneve e i sette nani’, poi sarà chiaro.
Ora, dimentichiamoci tutte le brutture, le citazioni fuori posto, gli anatemi di chi ha scritto (soprattutto a Cannes) qualcosa su questo “Anticristo dell’uomo cinematografico”.
La donna come altro (magico) da sé dell’uomo, la donna, inquieta ed inquietante parte oscura della luna, donna capace di far male, e per tutta risposta, l’uomo, legato a tutto quello che è artificio, cioè fuori dalla natura, per paura, per dolore, per senso di supremazia, la uccide.
Violenza sulle donne nei secoli dei secoli.
Giusto? Sbagliato?
Non si sa, solamente tanto, tanto dolore, fisico, e morale.
Magari anche (soprattutto) cinematografico, ma mai, mai (!) eminentemente teorico, o peggio, pubblicitario.
Ecco il rapporto uomo-donna attraverso i secoli, con stregoneria annessa, che c’entra antropologicamente di più di quanto si voglia credere con i riti arcaici e panteistici millenari, con l’oscurità del bosco.
E con il cinema.
Se poi Willem Dafoe, ‘Lui’ nella diegesi del racconto cinematografico, è stato interprete di Gesù di Nazareth nel bellissimo e pressochè invisibile (una rarissima visione sul network ODEON TV nel 1994 e poi più nulla) capolavoro dal titolo ‘L’ultima tentazione di Cristo’ di Martin Scorsese, questo è una chiave di lettura cinematografica voluta sicuramente dal sulfureo regista.
Le ‘sevizie’ fisiche (eiaculazione di sangue del fallo, il pistone infilato a mò di fallo nella gamba) che il “povero Cristo” Dafoe subisce dall’ “anticristo” Gainsbourg, non sono altro che carne cinematografica pulsante che prende senso suo personalissimo partendo da una conoscenza pregressa, incarnata nella memoria e carnale del cinema, quasi come in quella Tarantiniana.
Cinema fatto da gente che conosce il cinema.
Creato, anche, però per gente che non ha mai visto il cinema.
L’Anticristo del titolo, dando per scontato che Cristo fosse uomo, è la donna.
Il bello e stropicciato volto della Charlotte Gainsbourg, perfetto per la donna che corre con la luna, è imbronciato, sofferente, attonito, diretto verso un altrove a noi uomini precluso, peccato che dovesse essere all’inzio Eva Green ad interpretare il ruolo.
Il regista è un uomo, non dimentichiamolo, lo stesso uomo che ha fatto soffrire (ed elevare a star) Bjork in Dancer in the dark, palma d’oro a Cannes nel 2000, o nel 1996 la brava e dimenticata Emily Watson con Le onde del destino, o nei primi anni del nuovo secolo, con Nicole Kidman in Dogville e Manderlay, per la trilogia dell’Europa e il The Kingdom televisivo, invece, le cose sono un po’ diverse.
Sofferenza che viene ironicamente richiesta ad ogni attrice del regista, sacrificio fisico e mentale, quello stesso sacrificio che metaforicamente viene richiesto da tempi immemori alla donna nei secoli dei secoli da una società partriarcale.
Questo, al geniale Von Trier, non deve essere sfuggito.
Per quanto riguarda la sibillina frase “solo una donna può rovinare qualcuno a tal punto da fargli fare film del genere”, dà una risposta, sviscerando con arguzia il problema, il competente e bravo Mario Sesti che riescie ad arrivare ad una critica del film “lucidamente ed onestamente universale” 1
La forma del film, oltre ad essere tripartita (con epilogo cristologico), come in quasi tutta l’opera di Trier, usa, accarezza, penetra la forma per arrivare all’altrove della visione.
Non ‘discontinuita della forma’, ‘artificio’, o ‘immagini bellissime ma senza significato, confusionarie’, ma una forma che è sempre stata la stessa in Trier, mutogena, ma con l’anima sempre uguale, con la fede verso un altrove della visione.
In ‘Biancaneve e i sette nani’ di Walt Disney, del 1937, si usò l’allora rivoluzionaria tecnica del rotoscopio.
Stiamo parlando di animazione, eppure in questa pellicola, come in altre nel passato, si usa il rotoscopio per lo scopo contrario: mentre in Biancaneve, copiando i movimenti reali di una ballerina, si voleva rendere più fotorealistica l’eroina animata, qui, si vuole rendere meno fotorealistico quello che dovrebbe esserlo, a mò di sogno, di tuffo nella psiche, o appunto, verso un altrove della visione.
Il rotoscopio viene applicato nella prima sequenza, la caduta del bambino dalla finestra, che scopre si, un gusto per il ralenti quasi orgiastico di un DePalma o dello Scorsese più barocco di Toro Scatenato, come detto da alcuni critici attenti, ma mischia soprattutto questo ad una visione più particolareggiata, tra il filo d’ombra di questo mondo con le sue percezioni e quello rallentato, straniante, lugubre e oltremondano dell’animazione, derivante da Melies.
Un’altra sequenza, di fortissimo impatto, ha l’uso del rotoscopio come trait d’union, quella in cui si vede la Gainsbourg al rallentatore attraversare un ponte nel bosco, è una ricostruzione della sua psiche, guidata dal marito, ma è abbastanza lugubre, straniante e gravida di emozioni contrastanti da credere che faccia parte integrante della diegesi del racconto.
Alla fine della pellicola, si vede un esercito di fantasmi donne che attraversano il bosco, tutte vittime di violenza dopo aver seviziato carnalmente o mentalmente qualche uomo?
Silohuettes animate in movimento, rotoscopio anch’esse, che si muovono nella pellicola, ammonitrici, portanti (forse) un lucidissimo messaggio (non) di pace.
DEDICATO AD ANDREJ TARKOVSKY.
Recita il finale di questa pellicola, a ragione.
Il suo sguardo sulla natura, sul mondo, ma soprattutto quella sensazione di altrove della visione percepito e raggiunto per un effimero e fatalmente breve istante, questo ricorda Trier a suo personalissimo modo.
Davide Tarò.