IMAGO MORTIS

imago_mortisL’immagine della morte, impressa, catturata, per sempre.

Bruno, orfano di entrambi i genitori, è arrivato in Italia dalla Spagna per studiare regia e la settima arte presso la Scuola Internazionale di Cinema Murnau e, per pagare la retta, di notte lavora presso l’archivio.
Fermare in un lampo e per sempre, cosa si vede nell’istante prima di morire, la fotografia, il cinema probabilmente.
“La morte ogni pomeriggio” come ci diceva acutamente Andrè Bazin, poter filmare, imprimere su acetato e su pellicola ogni momento di vita, ci dà il diritto di filmare l’irrapresentabile? Il tabù per eccellenza? La Morte?
Forse si, ma con il rischio di desacralizzare il tutto.
Esempio di cinema come non se ne (vuole) fa(r) più, ambizioso, profondo, abissalmente di genere.
La sceneggiatura a molte mani, tra cui quella del regista, è ,per forza di cose, stratificata ed ammassata in un pout purri difficile da sciogliere, forse volutamente, forse no.
Non importa.
Le inquadrature insistenti in cui Bruno si ritrova a letto in camera nel dormitorio della scuola, piangente, osservante una sgualcita fotografia in bianco e nero dove ci sono i suoi genitori freddamente sorridenti per sempre, e in controcampo le domande esistenziali quasi in contemporanea, terribilmente ed antieticamente teoriche che si fanno le baronie, i padroni della scuola, su cosa mai si possa vedere prima della morte e successivamente imprigionarlo, valgono tutto il film.
Bruno, avendo già visto la morte delle persone a lui più care, può già dirlo, e il film ce lo passa con delicatezza e finta noncuranza: l’immagine della persona più amata.
Su quest’asse visivo/mimetico si sposta tutto il film, anche nel finale così apparentemente scombinato e sfilacciato.
Una pellicola che crea una sua mitologia, una sua complessa ed interessante cosmogonia.
Un inventore del 700′, una invenzione dannata, il Thanatoscopio che permette, attraverso l’estrazione dei bulbi oculari, di catturare l’ultima immagine del morituro.
Un gusto macabro e ricercato, proprio di un intero modo di concepire la vita e l’arte.
Il cinema, anche quello di svago, non cattura per sempre delle figure e le fa (ri)vivere anche dopo la loro morte fisica?
Non è un raccoglitore di immagini della morte?

Il film ha la regia dell’esordiente italiano Stefano Bessoni, nel cast può contare Oona Chaplin e, soprattutto, Gerardine Chaplin, che con il suo corpo esile, oblungo e slanciato ha il vero phisique du role,  nipote del celebre Charlie Chaplin, tanto per mantenere viva l’alone cimiteriale e l’ “imago mortis” del tutto.
E’ una coproduzione iberico/italiana e si vede dal cast variopinto e multigenere (c’è anche la giapponese Jun Ichikawa lanciata da Emanno Olmi nel 2003 in ‘Cantando dietro i paraventi’).
E’ stato girato, per buona parte, nella città di Torino, dove si sono potuti vedere il vetusto ed a suo modo inquietante Museo di scienze naturali (per non parlare dell’ottocentesco ‘Museo di anatomia Umana’ che per suggestioni è ben presente) oppure nei sotterranei dove viene rappresentato l’archivio della scuola Murneau, girati in veri sotterranei vicino alla Mole Antonelliana, ora ‘Museo Nazionale del Cinema’, oppure ancora dal materiale di scena fornito da uno dei più grandi e forniti negozi di antiquariato di questo genere che si hanno in Italia, a Torino, il nome è ‘Nautilus’ e si trova (mai posto poteva essere più azzeccato) nel vecchio quadrilatero/esoterico romano del capoluogo piemontese.
Il film, di questa discreta ma permeante patina “Torinese”, riesce a farne tesoro, dando all’intera pellicola una forza macabra, misteriosa ed esoterica di notevole intensità, che può cogliere anche l’ occhio più distratto.

Davide Tarò.

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