DEATH NOTE

La nuova onda del fotorealismo (in serie). Fotorealismo animato della morte (in serie).

Imperscrutabile come il manga che lo aveva preceduto, per il soggetto di Tsugumi Ohba e i disegni di Takeshi Obata, questa opera animata in 37 episodi lo è davvero.

La produzione è dovuta alla prolifica ed acclamata Madhouse a cui si devono opere quali Monster serie di 74 episodi tratta dal notevole manga di Naoki Urasawa, o la scoperta di autori quali Satoshi Kon e negli anni ’80 /‘90 del geniale Yoshiaki Kawajiri.

La produzione riesce nel difficile compito di trasporre il macchiavellico soggetto del manga, in animazione seriale commerciale, cosa non semplice, addirittura azzardata, difatti con le innumerevoli spiegazioni che danno i personaggi, pagina dopo pagina nel manga, la serie poteva serialmente risentirne.

Ma così non è stato.

Intendiamoci, non c’è nulla di simile in televisione fino ad ora, né nel mondo, né nel Giappone.

Solo la serie già citata di Monster ha fatto da apripista a questi adattamenti animati fotorealistici di manga con pochissima azione e tantissimi sottotesti strategici e teorici che poco hanno avuto a che fare con gli adattamenti animati.

Per capirci, ci troviamo davanti a opere animate che giganteggiano nel confronto con le (pur belle) serie tv americane attuali.

Stiamo parlando di una nuova onda di fotorealismo in serie, storie strutturate in maniera sopraffina, che potrebbero essere intepretate da attori in carne ossa proprio per la sovrabbondanza di dialoghi e di scene a tasso zero di azione.

Death Note, potrebbe essere avvicinato, assimilato per armonie, al serial Dexter di James Manos Jr, il killer dei serial killer intepretato dall’attore Michael C. Hall, ma il confronto non sarebbe completamente omogeneo, visto che il personaggio di quest’ultimo, vira verso un “umanità” esplicita e riconoscibile, mentre in Death Note, il protagonista è imperscrutabile, e tale rimane fino alla tragica fine della vicenda.

La regia di Tetsuro Araki, giovane trentenne visto già al lavoro nell’anime Black Lagoon, procede per gemmazione continua, come già aveva notato acutamente il traduttore del manga Giacomo Calorio, gemmazione rappresentata visivamente nello stupendo split screen di chiusura del secondo episodio, dove Light Yagami e L, i due antagonisti, vengono messi in un faccia a faccia virtuale, mentre pronunciano all’unisono la fatidica frase: Io sono la giustizia!

Dal rapporto quasi simbiontico tra Light e L, dopo la morte di quest’ultimo, nasce il rapporto “gemmato” di Light da una parte e Near e Mello dall’altra.

Il giovane regista, non ama i colpi di scena, e non adatta il manga in maniera da averne.

E’ capitale l’entrata in scena di L, nel manga arrivata a sorpresa, shocckante vedere che il tanto blasonato investigatore che dovrà catturare il nuovo dio della morte è un ragazzino dagli occhi sbarrati.

Nell’anime è ampiamente preannunciata visivamente da diversi piani e controcampi con il personaggio seppur in controluce, ma sufficienti per identificare l’età di L da subito, e quindi perdere in parte la sorpresa.

Questi sono solo alcuni degli esempi, l’andamento rapsodico della serie non ha forti scossoni dal punto di vista dei colpi di scena secchi, è in lento ma solidissimo divenire episodio dopo episodio però.

Per rendere il ritmo nervoso della serie, Araki usa la saturazione dei colori nelle scene di maggior tensione (che corrispondono per assurdo in Death Note a quelle dove c’è meno azione), l’uso della cinecamera virtuale tremolante acuisce il senso di perdizione e paura in alcune inquadrature dove non succede niente fisicamente ma mentalmente insostenibili (non è un caso che sia stato concepito in Giappone), l’ uso delle panoramiche in maniera perfida e truffaldina, come nel momento della scrittura dei nomi sul quaderno della morte che fa un Kira ispirato a mò di compositore musicale pazzo nel primo episodio, e inonda di split screen lo schermo, di facce una contro l’altra, rappresentanti duelli mentali “divini” a distanza.

Tutto questo farebbe pensare, ad un esame più attento, che il fotorealismo animato fino a qui descritto sia fondamentalmente diverso da quello di serie televisive dal vivo, la saturazione dei colori, l’uso della cinecamera tremolante, gli split screen sarebbero forse troppo disturbanti per una resa “dal vero”.

Solo il serial 24 con Kiefer Sutherland ha osato giocare sulla iconografia dello schermo in questo modo, ma per scopi tutto sommato diversi.

Le musiche di Hideki Taniuchi e Yoshihisa Hirano, quest’ultimo già sentito in Midori Days, con riff di chitarre deformate, cori vendicativi di una furia divina (il Tenchu!, il castigo divino) rendono l’alchimia tra immagini e suoni effettiva, cangiante e tremolante come uno spartito maledetto, dando un senso di temibile perdizione alla serie.

La sigla iniziala della prima metà di episodi è eseguita dai Nigtmare e si intitola, molto appropriatamente, The L world.

La velocissima melodia con la voce del cantante ci inabissa subito nella significante sigla di apertura, curata dalla Madhouse.

Il mondo di L, l’antagonista di Kira/Light dagli occhi sbarrati e dalla postura fetale, a cui viene dedicata la sigla e le parole di apertura della serie, una scelta stilistica molto precisa anche questa.

‘The L World’ sarà anche il titolo del film dal vivo del 2008, prequel alla serie animata (e quindi anche del manga), dove si narrano le origini dell’inquietante ed inquieto ragazzo, per la regia di Hideo Nakata.

Una delle inquadrature/immagine che più rimane per tutta la durata dell’anime non può che essere quella finale dell’opening, dove si vede un Kira in posa Michelangiolesca con le braccia aperte a mò di latore divino rappresentato nella pittura del rinascimento italiano.

Nella seconda parte della serie, la sigla iniziale curata da Maximum the Hormone ci centrifuga in un concentrato di hard metal deformato e deformante, coraggioso quanto inusuale, in perfetta simmetria con le scelte stilistiche dell’intero anime.

Un anime che uccide (in serie).

O come avrebbe detto Bazin, la perdizione assoluta, il tabù infanto per eccellenza: la morte ogni pomeriggio1.

Davide Tarò di

neo(N)eiga.

1 Andrè Bazin, ‘La morte ogni pomeriggio’ in Che cos’è il cinema? , Garzanti, Milano 2000.

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