Il programma del Cinema Trevi

Il Cinema Trevi riaprirà domenica 7 settembre con la proiezione di tre film assolutamente fuori dagli schemi, quando il cinema italiano era estremo: Autostop rosso sangue di Festa Campanile, L’ultimo treno della notte di Lado e il rarissimo L’occhio dietro la parete di Petrelli, e proseguirà con una retrospettiva dedicata a Nanni Moretti.

7 settembre (In)visibile italiano: Quando il cinema era estremo
9-14 settembre Ecce Nanni
16-21 settembre Equinozio d’autore. Il cinema di Maurizio Ponzi
23 settembre Carta bianca a… Marcello Garofalo

24 settembre Presentazione del volume 8 ½ raccontato dagli Archivi Rizzoli e del documentario Imago, l’immaginario di Federico Fellini

25-30 settembre Da qualche parte in Ungheria. Omaggio a István Gaál – Rassegna di cinema ungherese

domenica 7

(In)visibile italiano: Quando il cinema era estremo

Gli anni Settanta sono stati, da un punto di vista cinematografico, estremi, indefinibili, violentemente amorali. Film liminari, votati all’esagerazione e all’eccesso, che si muovevano ai margini del buon gusto, hanno abbattuto volentieri la morale, superando e annullando qualsiasi etica dello sguardo (le carrellate di pontecorviana memoria e ritenute proibite da Rivette, Daney e soci, sono ormai cristallizzate in un passato remoto). L’estremo estetico trovava terreno comune sia nel cinema d’autore che in quello di genere tanto che Salò o le 120 giornate di Sodoma e Cannibal Holocaust sono letteralmente impensabili oggi. Il nazi-erotico, il Rape & Revenge, trovavano ampio sfogo nel cinema di genere italiano, grazie a successi d’oltreoceano, dall’archetipo imitato da tutti The Desperate Hours (Ore disperate, 1955) a quel campionario di efferatezze chiamato Last House on the Left (L’ultima casa a sinistra, 1972). Ma era la stessa cronaca nera italiana a fornire l’ispirazione: i tragici fatti del Circeo hanno creato tristemente un mini filone cinematografico.

Al di là della (in)dubbia qualità intrinseca, molti di questi prodotti rappresentavano degli strumenti ideali, come scrive Roberto Curti nel suo imprescindibile Sex and Violence. Percorsi nel cinema estremo (Lindau), per «buttare all’aria il patto di non belligeranza con lo spettatore, un attacco terroristico ai meccanismi della visione, a quegli interruttori inconsci che, a un certo momento, scattano determinando il passaggio da uno stato di intrattenimento a uno di turbamento, rifiuto, disagio. Il cinema popolare può essere estremo, per scelta o suo malgrado; come lo è, per vocazione e su altri livelli di consapevolezza, certo cinema “d’autore”». Altrettanto curiosi sono i tagli inferti dalla censura come è accaduto ne L’ultimo treno della notte. O l’auto censura di un finale perché ritenuto troppo duro e disperante e quindi poco commerciale in favore di uno più banale (Autostop rosso sangue). Oppure il caso in cui un produttore manipoli il film, snaturandone il significato. Il regista, rivoltosi alla magistratura per il sopruso subìto, ottiene il ritiro del suo nome, sia in sede di regia che di sceneggiatura, rifiutando il coinvolgimento diretto. È il caso di quello strano film, anomalo, e per forza degli eventi, impari e diseguale, chiamato L’occhio dietro la parete e del suo regista, Giuliano Petrelli.

ore 17.00

Autostop rosso sangue (1978)

Regia: Pasquale Festa Campanile; soggetto: Aldo Crudo, liberamente tratto dal romanzo La violenza e il furore di Peter Kane; sceneggiatura: Ottavio Jemma, A. Crudo, P. Festa Campanile; fotografia: Franco Di Giacomo, P. Festa Campanile; musica: Ennio Morricone; montaggio: Antonio Siciliano; interpreti: Franco Nero, Corinne Cléry, David Hess, Fausto Di Bella, Pedro Sanchez [Ignazio Spalla], John Loffredo; origine: Italia; produzione: Explorer Film International, Medusa Distribuzione; durata: 107′

«Si tratta […] di un film sulla coppia o sui rapporti di coppia. Lo dimostra anche la frase di Böll, usata a mo’ di epitaffio all’inizio dei titoli di coda: “Non vi è un problema della coppia: vi è il problema di un uomo e il problema di una donna e non vi è che una soluzione: la morte”. Diretto da Pasquale Festa Campanile in un delicato periodo di riflessione sulla sua vita e sulla sua carriera artistica […], Autostop rosso sangue è anomalo nella produzione di quegli anni. Simile a un road movie all’americana ma girato in gran parte in Abruzzo (che sembra l’Arizona), il film è immediatamente riconducibile alla produzione nostrana dalla presenza di Franco Nero come protagonista; ma per il resto si discosta volutamente dalle atmosfere e dai sapori di casa nostra. È un film […] su una coppia che scoppia e Pasquale Festa Campanile […] è bravissimo nel descrivere la dinamica dei rapporti che si vanno lentamente (ma inesorabilmente) a incrinare. Difficile non immedesimarsi nelle tensioni che separano come un muro il giornalista Walter Mancini e sua moglie Eve; […]. Mentre il loro matrimonio va a scatafascio, fa la sua comparsa il perfido Adam […], l’elemento catartico che porterà a una svolta decisiva il rapporto. Autostop rosso sangue si trasforma così in una favola crudele senza eroi e senza morale» (Gomarasca).

ore 19.00

L’ultimo treno della notte (1974)

Regia: Aldo Lado; soggetto: Roberto Infascelli, elaborato da Ettore Sanzò; sceneggiatura: A. Lado, Renato Izzo; fotografia: Gabor Pogany; musica: Ennio Morricone; montaggio: Alberto Gallitti; interpreti: Flavio Bucci, Gianfranco De Grassi, Marina Berti, Enrico Maria Salerno, Irene Miracle, Macha Meril; origine: Italia; produzione: European Incorporation; durata: 91′

«Alla vigilia di Natale, Elisa Stradi, una ragazza di sedici anni figlia di un chirurgo italiano, parte in treno da Monaco, insieme alla cugina Margareth, per trascorrere le feste con i genitori, in Italia. Un disguido tecnico, fa sì che le giovani si ritrovino su un convoglio semideserto in balia di due teppisti e di una signora che dietro l’aria rispettabile, nasconde una natura perversa e sadica» (Pulici). «L’ultimo treno della notte è un film che contiene una grande metafora: la metafora della ricca borghesia, quella della signora bene, quella del chirurgo di fama, […], che, in realtà, si serve dell’emarginazione per esistere. […] Per me, il personaggio chiave dell’Ultimo treno è Macha Meril. Emblematicamente lei entra nel vagone con la veletta abbassata, come a tenere le distanze dal mondo, e appena si presenta una situazione violenta, alza il velo e mostra la sua vera faccia dando il peggio di sé. […] E nel finale quando è costretta a confrontarsi con quelli della sua specie, come Enrico Maria Salerno, torna a indossare la maschera e tira giù la veletta dicendo: “Io sono solo una vittima!”. E siccome Salerno e la Meril sono le due facce di una stessa medaglia, ne esce indenne» (Lado).

ore 21.00

L’occhio dietro la parete (1976)

Regia: Giuliano Petrelli; soggetto e sceneggiatura: G. Petrelli; fotografia: Cristiano Pogany; musica: Pippo Caruso; montaggio: Gian Maria Messeri; interpreti: John Philip Law, Fernando Rey, Olga Bisera, José Quaglio, Joseph Jenkins, Roberto Posse; origine: Italia; produzione: Cinemondial; durata: 85′

Paolo è uno scrittore rimasto paralitico in un incidente automobilistico nel quale ha perso la vita il figlio, e passa il suo tempo nello spiare l’inquilino dell’appartamento adiacente al proprio: Arturo, un giovane complessato e taciturno. Insieme a Paolo vive una giovane donna (la moglie? la figlia?). Paolo la incita ad andare nell’appartamento di Arturo per stabilire un contatto e animare le sue voglie voyeuristiche. Strano film che «pone lo spettatore nei medesimi panni dello scrittore, cioè con l’occhio dietro la parete a spiare la vita di un altro, facendo intendere che la curiosità voyeuristica abbia come fondamento una patologia psicologica. Gli appassionati dei reality show ci riflettano» (www.exxagon.it). Il film a tratti mostra «i segni di una regia sensibile e accorta, in netto contrasto con l’impostazione generale che fa leva […] sui luoghi più comuni del thriller e dell’erotismo spicciolo. Il perché di tanto, a detta dello stesso regista Giuliano Petrelli, è dovuto all’arbitrario intervento dei produttori i quali, modificando a sua insaputa l’originaria sceneggiatura del film in sede di montaggio, hanno fatto sì che le azioni si affastellassero l’una sull’altra senza il respiro necessario alla comprensione, che i dialoghi banalizzati fino all’inverosimile risultassero troncati, le successioni temporali incomprensibili, i tempi psicologici azzerati e l’avvicendamento delle scene non interconnesse. E che concezione e tono del lavoro fossero ben diversi da quelli pretesi dalla produzione, che ha presentato un’opera velleitaria, asfittica e volgare, è stato riconosciuto dalla stessa magistratura alla quale Giuliano Petrelli si è rivolto per chiedere il ritiro della firma sia dalla regia che dalla sceneggiatura. Infatti il pretore Macarone ha deciso che nelle locandine del film venga applicato una scritta di tal senso: “Il regista si dissocia dal montaggio e dalla edizione dei dialoghi non avendoli seguiti per contrasti con la produzione”» (Cer., «Il Messaggero», 1 luglio 1977).

Ingresso gratuito

lunedì 8

chiuso

9-14 settembre

Ecce Nanni

L’ultima edizione del Festival Internazionale del Film di Locarno ha dedicato una retrospettiva completa al regista, attore, produttore Nanni Moretti. L’evento è stato realizzato in collaborazione con la Cineteca Nazionale. Si è pertanto deciso di riprodurre, in un’edizione più sintetica, la personale a Roma, offrendo l’occasione di (ri)vedere i film come regista, ma anche le pellicole come attore e/o come semplice produttore. Perché Nanni Moretti ha avuto tra i grandi meriti quello di aver creato una vera e propria factory, agendo da sapiente talent-scout, lasciando così una traccia fondamentale di rinnovamento negli ultimi trent’anni del cinema (non solo) italiano. La sua personale cifra stilistica è facilmente riscontrabile nelle parole del critico Jean A. Gili: «Nanni Moretti non ha alcuna paura di mettersi a nudo: è un artista esigente, reso spesso scomodo dalla consapevolezza del proprio talento e dal rigore delle posizioni morali e politiche che assume. Regista e interprete di film nei quali per lungo tempo impersonerà il protagonista, chiamato dapprima Michele e poi, più precisamente, Michele Apicella – Apicella è il cognome da ragazza di sua madre -, egli affronta senza mezzi termini l’esasperazione dell’io attraverso lo sdoppiamento che mette il creatore dietro la macchina da presa e la creatura davanti all’obiettivo. […] Seguendo un’evoluzione che rivela il percorso intellettuale e intimo dell’autore, in Caro diario e Aprile Michele Apicella lascia il posto a Nanni Moretti stesso, come se quest’ultimo non sentisse più il bisogno di utilizzare un doppio trasparente per presentarsi agli spettatori: ormai è un uomo pubblico che interviene nel dibattito politico e allo stesso tempo un uomo privato che racconta le sue più intime preoccupazioni. Infine, tornando alla finzione […] con La stanza del figlio dà al personaggio da lui interpretato il nome di Giovanni (che è il suo all’anagrafe), un modo indiretto di dimostrare che la distanza tra il regista e l’individuo di cui assume qui l’identità è ancora ridottissima. […] Con Il Caimano si delinea una nuova svolta. Dopo gli anni degli interventi diretti nel campo della politica attraverso le prese di parola pubbliche […], Moretti torna al cinema con un film direttamente legato al lavoro politico. […] Moretti si mette in disparte per stare soltanto dietro alla macchina da presa. Solo verso la fine del film, torna ad essere il protagonista nei panni di un inquietante “cavaliere”, pronto a tutto pur di non perdere il potere quando la giustizia lo colpisce». Per i film diretti dal regista, si è preferito lasciare la parola direttamente a Moretti. Le dichiarazioni sono tratte dai volumi: Flavio De Bernardinis, Nanni Moretti, Il Castoro Cinema, Milano, 2006; Jean A Gili, Nanni Moretti, Gremese editore, Roma, 2006.

martedì 9

ore 17.00

Io sono un autarchico (1976)

Regia: Nanni Moretti; soggetto e sceneggiatura: N. Moretti; fotografia: Fabio Sposini; musica: Franco Piersanti; montaggio: N. Moretti; interpreti: N. Moretti, Simona Frosi, Andrea Pozzi, Fabio Traversa, Giorgio Viterbo, Paolo Zaccagnini; origine: Italia; produzione: N. Moretti; durata: 95′

«Ripensando ai miei film, mi accorgo che in Io sono un autarchico ed Ecce bombo c’è nei protagonisti un tentativo di fare qualcosa insieme che nei film successivi non c’è più. Questo progetto comune c’era anche in Militanza, militanza (la sceneggiatura scritta prima di Io sono un autarchico, che non ho mai realizzato). Sono tre film simili: film corali sul mio ambiente politico, sociale, generazionale. Ritornando a Io sono un autarchico, alla sua scrittura, c’era un “trattamento” (qualcosa di più di un soggetto) prima di iniziare il film. […] Uno dei momenti che, invece, migliorò durante le riprese rispetto al “trattamento”, fu proprio la situazione del teatro. Trovai, non mi ricordo come, forse tramite amici di amici, il teatro 99 chimere dove si faceva “teatro parapsicologico”. Ci siamo stati molti giorni, lì la fotografia poteva essere un po’ meno banale e le scene presero spazio rispetto al canovaccio originale. Mi piace stare molto tempo in un set “naturale”, ma mi capita molto raramente» (Moretti).

ore 19.00

Ecce bombo (1978)

Regia: Nanni Moretti; soggetto e sceneggiatura: N. Moretti; fotografia: Giuseppe Pinori; musica: Franco Piersanti; montaggio: Enzo Meniconi; interpreti: N. Moretti, Luisa Rossi, Glauco Mauri, Lorenza Ralli, Fabio Traversa, Paolo Zaccagnini; origine: Italia; produzione: Filmalpha, Alphabeta; durata: 100′

«Per Ecce bombo (che è l’urlo di uno straccivendolo che, mi avevano raccontato, girava intorno a una scuola di Roma – e che compare in una scena del film) sono stato indeciso tra decine di titoli […] Uno era Sono stanco delle uova al tegamino, poi scelsi Ecce bombo che però suscitava poco consenso, ricordava “Ecce Homo”, sembrava blasfemo. Senz’altro se il film fosse andato male la colpa sarebbe stata del titolo […]. Il tirante narrativo in una sceneggiatura tradizionale, anche se non si tratta di un giallo o di un poliziesco, si chiama suspence: è ciò che sviluppa il film, che avvince lo spettatore. Nel mio film non c’è nulla di tutto ciò. Ecce bombo ha una struttura invece molto più orizzontale, a incastro. […] Si trattava, e la messa in scena anche se molto povera lo ricordava, di un film d’artificio. E cercava di essere il meno possibile sull’attualità. I personaggi dei miei film sembrano vivere in un acquario, non si parla mai di un avvenimento accaduto in quel periodo in cui è ambientato il film» (Moretti).

Copia stampata con il contributo del Festival Internazionale del Film di Locarno dal negativo restaurato per gentile concessione di Sacher Film

ore 21.00

Sogni d’oro (1981)

Regia: Nanni Moretti; soggetto e sceneggiatura: N. Moretti; fotografia: Franco Di Giacomo; musica: Franco Piersanti; montaggio: Roberto Perpignani; interpreti: N. Moretti, Piera Degli Esposti, Laura Morante, Alessandro Haber, Nicola Di Pinto, Claudio Spadaro; origine: Italia; produzione: Operafilm, Raiuno; durata: 105′

«È la storia di un ragazzo dalla doppia personalità. […] Sogni d’oro non è un film sul cinema e tantomeno sui tormenti di un artista in crisi creativa. Parla d’altro, ma chi ha già deciso in anticipo cosa vedrà non se ne può accorgere. Nel film c’è sofferenza e dolore, ma questo non riguarda il cinema, riguarda la vita. […] Sogni d’oro è solo autocritico. Non vuol prendersela con nessuno, ce l’ha soltanto con questa società dello spettacolo nella quale tutti, io per primo, siamo coinvolti quotidianamente. Insomma tutto fa spettacolo. E allora, perché le nevrosi di Moretti non dovrebbero far spettacolo[…]. Sogni d’oro è un delirio e insieme un teorema» (Moretti). Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia, 1981.

mercoledì 10

ore 17.00

Bianca (1984)

Regia: Nanni Moretti; soggetto e sceneggiatura: N. Moretti, Sandro Petraglia; fotografia: Luciano Tovoli; musica: Franco Piersanti; montaggio: Mirco Garrone; fonico: Franco Borni; interpreti: N. Moretti, Laura Morante, Roberto Vezzosi, Dario Cantarelli, Remo Remotti, Vincenzo Salemme, Enrica Maria Modugno; origine: Italia; produzione: Faso Film, Reteitalia; durata: 95′

«Per me Bianca è un film molto doloroso, e se c’è una maggiore ferocia verso gli altri è perché c’è una maggiore ferocia verso me stesso, una minore indulgenza nei confronti del mio personaggio. Il protagonista diventa più lucido mah, […] forse sempre più “spellato”, sempre più “scorticato” e isolato. […] Bianca è costruito intorno al carattere psicologico di Michele, alle sue ossessioni, alle sue fobie. Lavorando sulla sua psicologia, ho ben presto capito che era necessaria farla sfociare in qualcosa di grave. Non poteva essere altro che un omicidio perché il suo moralismo, la sua rigidità, la sua sistematizzazione si trasformano in pura follia. Con questo intendo dire che all’inizio aderisco al mio personaggio, mi ritrovo in lui, lo capisco; ma poco a poco lui si stacca da me, mi supera e corre verso la propria follia» (Moretti).

Copia stampata con il contributo del Festival Internazionale del Film di Locarno

ore 19.00

La messa è finita (1985)

Regia: Nanni Moretti; soggetto e sceneggiatura: N. Moretti, Sandro Petraglia; fotografia: Franco Di Giacomo; scenografia: Amedeo Fago, Giorgio Bertolini; musica: Nicola Piovani; montaggio: Mirco Garrone; fonico: Franco Borni; interpreti: N. Moretti, Margarita Lozano, Ferruccio De Ceresa, Enrica Maria Modugno, Marco Messeri, Dario Cantarelli; origine: Italia; produzione: Faso Film; durata: 94′

«Dopo essere stato studente, regista, professore, era arrivato il momento di accostarmi a questo personaggio, quello del sacerdote, che per sua istituzione deve occuparsi dei problemi degli altri. La parrocchia assomiglia un po’ al mondo dei miei film precedenti; ma mentre prima potevo ripiegarmi su me stesso, qui ho il dovere – ma è anche un’esigenza personale – di immischiarmi nella vita degli altri. Ero interessato alla difficoltà che troviamo nel fare qualcosa per gli altri. Forse questo personaggio in confronto a quello di Bianca, ugualmente rigido, ugualmente costruito a partire da basi di moralità, di perfezione, di assoluto, inizia ad accettare un po’ di più gli altri, ad accettare la realtà» (Moretti). Orso d’argento al Festival di Berlino, 1986.

Copia stampata con il contributo del Festival Internazionale del Film di Locarno

ore 21.00

Palombella rossa (1989)

Regia: Nanni Moretti; soggetto e sceneggiatura: N. Moretti; fotografia: Giuseppe Lanci; scenografia: Giancarlo Basili; musica: Nicola Piovani; montaggio: Mirco Garrone; interpreti: N. Moretti, Asia Argento, Silvio Orlando, Mariella Valentini, Alfonso Santagata, Claudio Morganti; origine: Italia; produzione: Sacher Film, Palmyre Film, Rai, So.Fin.A; durata: 89′

«In Palombella rossa, attraverso l’amnesia del protagonista, potevo costruire un film con modalità non lineari, dove tutto poteva funzionare alla perfezione, ma anche come se il film stesso, le situazioni uscissero direttamente dalla mia testa. I colori, la struttura, […] ho inteso comporre un’atmosfera anni Cinquanta, con questi muri dipinti un po’ datati. Soltanto l’acqua è rimasta com’era. Noi abbiamo ricostruito tutto come in un studio cinematografico a cielo aperto» (Moretti). Nastro d’argento 1990 per il miglior soggetto originale; Ciak d’oro 1990 per la miglior regia.

Copia stampata con il contributo del Festival Internazionale del Film di Locarno

a seguire

La cosa (1990)

Regia: Nanni Moretti; fotografia: Alessandro Pesci, Giuseppe Baresi, Roberto Cimatti, Riccardo Gambacciani, Gherardo Gossi, Angelo Strano; montaggio: N. Moretti; origine: Italia; produzione: Angelo Barbagallo e N. Moretti; durata: 59′

«Girai il documentario La Cosa: dopo il crollo del muro di Berlino c’era stata la proposta del segretario del Pci, Achille Occhetto, di cambiare nome, natura e identità al partito. Cominciai a filmare a Roma, nel quartiere popolare di Testaccio, militanti che si riunivano in assemblea per la prima volta per discutere la proposta di Occhetto. Chi era d’accordo e chi era contrario. I e i no. Filmavo persone che avevano dedicato gran parte della loro vita al Pci e che capivano che con la scomparsa e la trasformazione di quel partito la loro vita sarebbe cambiata, il tipo di impegno e di investimento psicologico sarebbe stato diverso, sarebbero cambiate loro come persone. Sono state settimane straordinarie, una vera e propria autocoscienza collettiva a cui guardava con interesse non solo la sinistra ma tutta la società italiana. Peccato che morendo il Pci non seppe comunicare a se stesso e agli altri che la sua esperienza aveva molto più a che vedere con l’Emilia Romagna che con l’Unione Sovietica» (Moretti).

giovedì 11

ore 17.00

Caro diario (1993)

Regia: Nanni Moretti; soggetto e sceneggiatura: N. Moretti; fotografia: Giuseppe Lanci; musica: Nicola Piovani; montaggio: Mirco Garrone; interpreti: N. Moretti, Renato Carpentieri, Antonio Neiwiller, Moni Ovadia, Carlo Mazzacurati, Mario Schiano; origine: Italia; produzione: Sacher Film; durata: 98′

«In Caro diario ci sono due novità importanti: uno stile meno rigido, ma anche l’abbandono, per il mio personaggio e per me, della pretesa di essere il direttore artistico della vita dei miei amici, dei loro comportamenti […]. Non è un segnale di rassegnazione, ma la presa d’atto che gli altri decidono da soli ciò che essi sono, e se si fa il paragone con i miei precedenti film, stavolta, specialmente nell’episodio Isole, sono io che faccio da spalla agli altri personaggi. C’è anche il fatto che, pur essendo assolutamente me stesso, Nanni Moretti, sono in misura minore, come dire, protagonista assoluto. Nell’episodio In Vespa, sono di spalle, in lontananza nell’inquadratura. Funziono un poco come una voce off […]. Stilisticamente, Caro diario è molto diverso dai miei film precedenti, Palombella rossa escluso, dove la cinepresa si muoveva di già di più rispetto agli altri film. Fino a La messa infinita, spostavo la cinepresa assai di rado, mentre nel capitolo In Vespa è in continuo movimento» (Moretti). Premio miglior regia, Festival di Cannes 1994.

ore 19.00

Aprile (1998)

Regia: Nanni Moretti; soggetto e sceneggiatura: N. Moretti; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Angelo Nicolini; interpreti: N. Moretti, Silvio Orlando, Silvia Nono, Pietro Moretti, Agata Apicella Moretti, Nuria Schoenberg; origine: Italia; produzione: Sacher Film, Bac Films, in collaborazione con Rai, Canal Plus; durata: 78′

«Aprile è un diario, il prossimo film non lo sarà […]. È il più breve fra i miei film, ma non per l’esiguità dei materiali al tavolo di montaggio, al contrario. Ho tagliato parecchie scene, alcune molto buone ma che non trovavo essenziali al racconto. Senza vantarmi (non è il caso), ho trattato nel film qualcosa di questo Paese che, mi preme dirlo, nel cinema italiano non è stato evocato. Degli avvenimenti importanti si sono succeduti in questi anni in Italia […]. Io non volevo fare un film militante. Ho voluto fissare alcuni momenti, con il mio sguardo. Non voglio dare la linea, e nemmeno dire che tu la devi pensare come me, e lasciarti guidare dalla mia mano […] Aprile l’ho fatto per raccontare le mie critiche alla sinistra e la mia estraneità alla destra […]. Io penso che in questo film così privato, rispetto a tutti gli altri miei film, ci siano tanti aspetti politici, raccontati senza strizzatine d’occhio. […] Per questo, senza voler e convincere nessuno, in Aprile ho voluto fissare alcuni momenti, per ricordare ciò che mi è successo, ciò che ci è successo. Questo è il senso della memoria» (Moretti).

ore 21.00

La stanza del figlio (2001)

Regia: Nanni Moretti; soggetto: N. Moretti; sceneggiatura: Linda Ferri, N. Moretti, Heidrun Schleef; fotografia: Giuseppe Lanci; musica: Nicola Piovani; montaggio: Esmeralda Calabria; interpreti: N. Moretti, Laura Morante, Jasmine Trinca, Giuseppe Sanfelice, Silvio Orlando, Claudia Della Seta; origine: Italia; produzione: Sacher Film, Bac Films, Studio Canal +, in collaborazione con Rai Cinema, Tele +; durata: 98′

«Sono contento di aver realizzato La stanza del figlio oggi e non quindici anni fa. A quel tempo non avrei mai pensato di girare un film su un argomento come la morte. Avrei poi immaginato il personaggio dello psicanalista, il suo rapporto con i pazienti, i figli, in maniera assai differente, probabilmente con maggiore intolleranza e meno affetto nel rapporto frontale fra medico e malato. In Italia, la gente ritiene che questo film sia diverso. Io non lo penso. Ha richiesto tre anni di lavoro e non si può certo affermare che i miei film precedenti fossero esclusivamente comici, oppure che non mostrassero nulla che riguardasse la sofferenza e la morte[…]. È un film, innanzitutto, sulla vita di uno psicanalista. Per questo volevo che lo studio e l’abitazione fossero contigui, che lo spazio professionale e lo spazio privato fossero separato soltanto da una porta. Si vede bene, nel film, che ci sono due ingressi per lo stesso luogo» (Moretti). David di Donatello 2001: miglior film, migliore attrice protagonista (Laura Morante), miglior musicista (Nicola Piovani). Palma d’oro Festival di Cannes 2001.

venerdì 12

ore 17.00

Padre padrone (1977)

Regia: Paolo e Vittorio Taviani; soggetto: dall’omonimo romanzo di Gavino Ledda; sceneggiatura: P. e V. Taviani; fotografia: Mario Masini; scenografia: Gianni Sbarra; musica: Egisto Macchi; montaggio: Roberto Perpignani; interpreti: Saverio Marconi, Omero Antonutti, Marcella Michelangeli, Fabrizio Forte, Marino Cenna, Nanni Moretti; origine: Italia; produzione: Cinema Srl, Rai Radiotelevisione Italiana (Rete 2); durata: 123′

«Nanni Moretti è stato il più gran rompicoglioni che si possa immaginare […] ma uno di quei rompicoglioni che hanno diritto a esserlo per raggiungere lo scopo che si prefiggono. Da tempo eravamo letteralmente perseguitati da questo giovane: telefonava, compariva ovunque andassimo […]. Alla fine ci costrinse a vedere i suoi filmini in Super8. E fu a quel punto che dovemmo riconoscere che aveva qualcosa dentro […]. Nacque Padre padrone e Nanni voleva fare l’aiuto regista []. Gli dovemmo dire chiaro che la cosa non era possibile, e non lo era perché sentivamo che lui era già un regista» (Vittorio Taviani).

ore 19.10

Notte italiana (1987)

Regia: Carlo Mazzacurati; soggetto e sceneggiatura: C. Mazzacurati, Franco Bernini; fotografia: Agostino Castiglioni; musica: Fiorenzo Carpi; montaggio: Mirco Garrone; interpreti: Marco Messeri, Giulia Boschi, Remo Remotti, Mario Adorf, Memè Perlini, Tino Carraro; origine: Italia; produzione: Nanni Moretti e Angelo Barbagallo per Sacher Film/Raiuno; durata: 93′

«Con la Sacher Film, Angelo Barbagallo e io vogliamo produrre quei film che vorremmo vedere al cinema, film non banali e con una identità – soprattutto film la cui distribuzione nelle sale non sia, come accade oggi, solamente una formalità in vista del passaggio televisivo in una tv via cavo americana o in una rete televisiva italiana. […] Nonostante tutto ci sembra che nell’orrore dell’industria italiana ci sia un piccolo spazio per un cinema non scemo. Ci piacerebbe che non si chiudesse del tutto […]. Per noi conta moltissimo la sceneggiatura, il racconto, la storia. Non vogliamo produrre film poverissimi che risultino poi inutilizzabili» (Moretti).

ore 21.20

Il portaborse (1991)

Regia: Daniele Lucchetti; soggetto: Franco Bernini, Angelo Pasquini; sceneggiatura: Sandro Petraglia, Stefano Rulli; collaborazione alla sceneggiatura: D. Lucchetti; fotografia: Alessandro Pesci; musica: Dario Luvcantoni; montaggio: Mirco Garrone; interpreti: Silvio Orlando, Nanni Moretti, Giulio Brogi, Anne Roussel, Angela Finocchiaro, Graziano Giusti; origine: Italia; produzione: N. Moretti e Angelo Barbagallo per Sacher Film; durata: 92′

«Il professore Luciano Sandulli (Orlando) viene cooptato per scrivere i discorsi del ministro Cesare Botero (Moretti). I vantaggi e i favori iniziano a fioccare: ma Luciano, resosi conto del marcio dell’ambiente, oserà ribellarsi. Rifiutato dalla Rai, e prodotto dalla Sacher Film di Moretti e Barbagallo, un attacco frontale – e in anticipo sui tempi – all’Italia dei furbi, dei corrotti e del rampantismo socialista. Moretti si cala con intelligenza nei panni di un personaggio arrogante e sgradevole; ma l’evoluzione psicologica del professorino è un po’ schematica […]. Giustamente lodato come esempio di cinema italiano che torna a far presa sulla realtà, il film di Lucchetti (che interpreta la parte del regista pubblicitario) è spesso pungente e ha il coraggio del pessimismo (con o senza brogli, Botero alla fine vince le elezioni): ma non convince appieno il suo moralismo astratto, e il suo mitizzare la figura del perdente» (Mereghetti). David di Donatello 1991 a Nanni Moretti per la miglior interpretazione maschile.

sabato 13

ore 17.00

La seconda volta (1995)

Regia: Mimmo Calopresti; soggetto e sceneggiatura: Heidrun Schleef, Francesco Bruni, M. Calopresti; fotografia: Alessandro Pesci; musica: Franco Piersanti; montaggio: Claudio Cormio; interpreti: Valeria Brini Tedeschi, Nanni Moretti, Valeria Milillo, Simona Caramelli, Roberto De Francesco, Marina Confalone; origine: Italia; produzione: N. Moretti e Angelo Barbagallo per la Sacher Film; durata: 80′

«Il primo film di Mimmo Calopresti, quarant’anni, nato in Calabria e vissuto a Torino, documentaristica sociale, è un racconto morale, dunque qualcosa di raro nel cinema italiano. Descrive per la prima volta la condizione attuale degli ex terroristi in semilibertà, raggiunge una piena consonanza tra forma e contenuti, adotta un approccio serio, sensibile, rigoroso, e anche se le idee di regia sono poche riduce la piattezza e monotonia dello stile con la profondità dell’analisi e l’interpretazione. Nanni Moretti è grande, la sua faccia carica di segni esprime con mezzi minimi e intensità le emozioni del professore: l’impassibilità coatta di chi ha dovuto subire l’insopportabile, rancore, curiosità, una sfumatura di cattiveria vendicativa, l’ostinazione di chi cerchi di curarsi con un farmaco amarissimo; e Valeria Bruni Tedeschi è bravissima con il viso opaco, gli sguardi sabbiosi, l’andatura dimessa, la calma ingannevole delle vite negate» (Tornabuoni).

ore 19.00

Caro diario (replica)

ore 21.00

Il caimano (2006)

Regia: Nanni Moretti; soggetto: N. Moretti, Heidrun Schleef; sceneggiatura: N. Moretti, Francesco Piccolo, Federica Pontremoli; fotografia: Arnaldo Catinari; musica: Franco Piersanti; montaggio: Esmeralda Calabria; interpreti: Silvio Orlando, Margherita Buy, Daniele Rampello, Giacomo Passatelli, Jasmine Trinca, Cecilia Dazzi; origine: Italia; produzione: Sacher Film, Bac Films, Stephan Films, France 3 Cinema, Wild Bunch, Canal +, Cinecinema; durata: 112′

«È un film sul cinema, un film d´amore e un film sull´Italia di oggi. Mi stupisce che molte persone s´aspettassero da me un film di propaganda. Alcuni temevano questa scelta, altri addirittura se l´auguravano. Ma io ho fatto tanti film diversi, fino ad ora, non mi interessano questo tipo di operazioni. C´è un clima un po´ sovraeccitato rispetto a questo film, non mi aspettavo così tanto. Spero che le persone vadano al cinema per vedere un film, un mio film, interpretato da attori e attrici bravissimi […]. Il personaggio che da il titolo al mio film alla fine lascia dietro di sé macerie. Queste macerie sono culturali, politiche, istituzionali, costituzionali, etiche, psicologiche anche. Vent´anni fa, trent´anni fa un elettore comunista e un elettore democristiano comunicavano, sentivano di avere alle loro spalle un patrimonio comune. Volendo una volta tanto essere schematici da dodici anni questo paese è spezzato in due. Io stesso quando, non con un film ma con la mia persona, abbandonando il mio lavoro quattro anni fa ho fatto politica per un breve periodo, con gli amici dei movimenti, dei girotondi mi sono rivolto anche all´elettorato di centro destra, senza nessuna espressione di superiorità o razzismo del tipo: “Mi rivolgo agli elettori perbene di centro destra”, no. Noi ci rivolgevamo, quando facevamo manifestazioni per una giustizia uguale per tutti, contro il monopolio televisivo, per la scuola pubblica, per la sanità, a tutti i cittadini. In altri paesi c´è un patrimonio comune di valori che fonda quel paese, quella democrazia, quella repubblica. E dopo ci si divide, sulle linee politiche: la destra, la sinistra, il centro, i progressisti, i conservatori. In Italia sembra che da molti anni non ci sia più un patrimonio comune di valori» (Moretti). David di Donatello 2006: miglior film, miglior regista, miglior produttore (Angelo Barbagallo e Nanni Moretti per Sacher Film), miglior attore protagonista (Silvio Orlando), miglior musicista (Franco Piersanti), miglior fonico di presa diretta (Alessandro Zanon).

domenica 14

ore 17.00

Sogni d’oro (replica)

ore 19.00

Io sono un autarchico (replica)

ore 21.00

Bianca (replica)

lunedì 15

chiuso

16-21 settembre

Equinozio d’autore. Il cinema di Maurizio Ponzi

Critico cinematografico dal 1963 al 1970 per riviste di cinema come «Filmcritica», «Cinema 60», «Cahiers du Cinéma», «Avant-Scène» e soprattutto per «Cinema & Film», dove ha fatto parte anche del comitato direttivo, aiuto regista per Pier Paolo Pasolini per La sequenza del fiore di carta, episodio di Amore e rabbia, Maurizio Ponzi esordisce, non prima di essersi fatto le ossa con tre documentari-inchiesta girati tra il 1966 e il 1968 (Il cinema di Pasolini, Verso Rossellini, Visconti), con un’opera importante, I visionari, nella quale si sentono gli echi della nouvelle vague e soprattutto di un cineasta come Jacques Rivette. I film successivi sono all’insegna di una originalità tematico-visiva, ben lontana da molte pellicole coeve: Equinozio (1970) è una delicata favola fantasociologica, Il caso Raoul (1974) è un ritratto doloroso e toccante di un giovane schizofrenico. Ma il suo amore per il cinema non conosce formati: per la televisione realizza nel 1969 un’opera sperimentale, Stefano junior, in cui narra la quotidianità di un adolescente lavoratore. Negli anni ottanta ha inizio una interessante collaborazione con Francesco Nuti con tre commedie malinconiche, ironiche, delicate, mai banali e volgari. Il cinema successivo di Ponzi come i suoi numerosi lavori televisivi sono “rossellinianamente” votati all’essere umano. Ed è in tale ottica che il regista (ri)scopre grandi comici, donando loro una maggiore umanità e operando spesso un’operazione di sottrazione della tipica vis comica (da Paolo Villaggio a Enrico Montesano e Renato Pozzetto) per costruire personaggi più verosimili e meno caratteristi. Nei suoi film c’è sempre un’attenzione all’animo femminile mai stereotipata grazie anche a una collaborazione proficua con attrici di talento (Giuliana De Sio in primis). Dai primi film sperimentali alle commedie degli anni ottanta, fino ai suoi lavori più recenti (negli ultimi anni ha diretto svariate fiction televisive di successo), Maurizio Ponzi spiega così il suo percorso autoriale ma non autistico: «Io adoro stare sul set, se potessi ci starei tutti i giorni, ma ovviamente non posso. Cerco però di fermarmi pochissimo, evito di stare con le mani in mano per aspettare il film della vita. Sono spinto, quindi, oltre che da ragioni alimentari, da ragioni esistenziali. Con questo non voglio dire che sono pronto ad accettare tutto ciò che mi propongono. Quando decido di dirigere un film è perché ci credo, perché so che ogni film deve avere una sua ragione d’essere, piccola o grande che sia».

martedì 16

ore 17.00

I visionari (1968)

Regia: Maurizio Ponzi; soggetto: M. Ponzi; sceneggiatura: M. Ponzi, Edoardo De Gregorio; fotografia: Angelo Barcella; montaggio: Mirella Mencio; interpreti: Adriana Asti, Jean-Marc Bory, Luigi Diberti, Pier Luigi Aprà, Laura De Marchi, Olimpia Carlisi; origine: Italia; produzione: 21 marzo Cinematografica; durata: 93′

«Inviata a Parigi per convincere un attore a recitare nel lavoro del fidanzato – un regista teatrale – Adriana riesce nell’intento, ma finisce per innamorarsi del giovane. Costui, tipo superficiale e amorale, pur dichiarando di amare la donna (anche all’ex fidanzato di questa, ora diventato suo amico) non perde occasione per avere rapporti anche con una antica amante» (Poppi/Pecorari). «Vorrei parlare di due film […]: Partner di Bernardo Bertolucci, e I visionari di Maurizio Ponzi. Il film di Ponzi (I visionari: che ha vinto il primo premio del Festival di Locarno, ed è strano che in Italia non ne sia nato almeno un piccolo caso: sempre così, quando i “casi” meritano di nascere) è tutta un’altra cosa. Esso, al contrario del film di Bertolucci, è strettamente unitario: così unitario, da essere quasi monotono, monolitico, privo di spiragli: e, di conseguenza, misterioso, o, meglio, enigmatico. Senza cambiamenti di ritmo, senza uscire mai da se stesso, senza riflettere mai se stesso, tutto perduto dentro il suo mondo prefilmico come in un sacrario, I visionari fa vivere se stesso allo spettatore; che esce dalla visione del film, dunque, come dopo aver “partecipato” a un mistero. Un mistero molto tranquillo: piccolo-borghese e intellettualistico. Lo strano è che, come nel film di Bertolucci, anche nel film di Ponzi, protagonista ideologico è il teatro. Ma strano, anche quando Ponzi rappresenta nel cinema il teatro, lo rappresenta cinematograficamente: il teatro in Ponzi diventa cinema in quanto il “campo” e il “controcampo” sono usati regolarmente. Lo spettatore, che è spettatore di teatro nel cinema, entra “dentro” quel teatro rappresentato nel cinema: non ha alle spalle altri spettatori, ma ha alle spalle il mondo rappresentato da Ponzi. Egli dunque vive cinematograficamente dei sentimenti misteriosi dei protagonisti, e, inoltre, è fisicamente “dentro” il loro mondo. Il teatro in Bertolucci è intellettualisticamente idealizzato come spettacolo modello. In Ponzi è rappresentato esistenzialmente come simbolo dell’esistenza. Infatti gli attori vivono nel teatro la stessa vicenda che vivono nella vita… Ma non voglio addentrarmi nel territorio che è di competenza del critico cinematografico. […]. In Ponzi c’è, per esempio, una rievocazione del cinema degli anni Trenta, fatta in un modo e con un’intensità che non hanno finora modelli (gli anni Trenta sono stati finora evocati commercialmente dall’esterno: non secondo il gusto di una cultura cinematografica tanto raffinata e matura, come in Ponzi. E si noti: il suo film non è affatto un film elegante nel senso convenzionale della parola, anzi ha quasi delle rozzezze , è molto disadorno e massiccio)» (Pasolini).

ore 19.00

Equinozio (1970)

Regia: Maurizio Ponzi; soggetto: dal romanzo Le donne muoiono di Anna Banti; sceneggiatura: M. Ponzi, Salvatore Samperi; musica: Fiorenzo Carpi; interpreti: Claudine Auger, Paola Pitagora, Giancarlo Sbragia, Paolo Turco, Olimpia Carlisi, Claudio Gora; origine: Italia; produzione: San Diego Cinematografica; durata: 90′

«In coincidenza di un particolarissimo fenomeno astronomico, un’improvvisa ondata di follia collettiva colpisce un gran numero di giovani facendo scattare nel loro animo la nostalgia di luoghi apparentemente inesistenti o di situazioni mai vissute. Uno psichiatra, che come molti altri lavora per comprendere l’origine del fenomeno, decide di seguire Benedetto, il suo malinconico assistito, fino ad un castello nel quale egli “sente” di aver conosciuto e amato una certa Maria. La donna, realmente esistita, è morta da tempo, ma il vecchio custode crede di riconoscere un’impressionante somiglianza tra il giovane e il suo antico padrone, il marito di Maria, caduto in battaglia durante la prima guerra mondiale» (Fantafilm). «Io mi ricordo quando ho fatto il mio secondo film, un film di fantascienza, Equinozio, fantastique tratto da un grande racconto di Anna Banti. Mi trattarono con sufficienza. Piacque ai francesi, che lo presero a Cannes, ma in Italia fatta eccezione per una bella critica di Pietro Bianchi e l’incoraggiamento di Pasolini, passò praticamente inosservato: avevo osato raccontare una storia di reincarnazione in un’Italia completamente fantastica, praticamente senza epoca. Guai a fare una cosa che esce minimamente dalle regole, devi sempre fare in modo che tutti possano dire che hai trattato “seriamente” quell’argomento» (Ponzi).

ore 20.45

Incontro con Maurizio Ponzi

a seguire

Il caso Raoul (1974)

Regia: Maurizio Ponzi; soggetto e sceneggiatura: M. Ponzi; fotografia: Roberto Gerardi; musica: Manuel De Sica; montaggio: Roberto Perpignani; interpreti: Stanko Molnar, Delia Boccardo, Alida Valli, Milena Vukotic, Laura Belli, Alberto Capobianco; origine: Italia; produzione: Skra Cinematografica; durata: 103′

«”Schizofrenico potrebbe essere semplicemente colui che non è riuscito a sopprimere i suoi istinti normali per conformarsi a una società anormale”. Quest’affermazione di Ronald D. Laing, collocata come epigrafe a Il caso Raoul, ne condensa il significato. La vicenda del giovane Raoul, un attore di cabaret che ha passato l’infanzia tra le vecchie macerie e i nuovi grattacieli di Berlino Ovest, è parafrasata da un caso clinico curato dall’antipsichiatra di L’io diviso (i suoi libri sono pubblicati da Einaudi). Separato dall’età di quattro anni dalla sua vera madre, accolto come figlio adottivo in una famiglia dove gli si è nascosta la verità sulla sua nascita, Raoul ha maturato un atroce senso di colpa (sono stato abbandonato dalla mamma, perciò sono cattivo e devo punirmi), che de-genera più tardi in una forma acuta di schizofrenia. Maurizio Ponzi […] ha studiato a fondo l’opera di Laing e ne ha ricavato una esemplificazione nitida e provocatoria, che si inserisce nel filone inaugurato da Diario di una schizofrenica di Nelo Risi. In polemica con Family Life di Ken Loach, il nostro regista ha puntato su una situazione di apparente normalità per illustrare meglio l’origine della malattia: lo si avverte appassionato e teso, dietro la compostezza di un’esposizione quasi scientifica. Questa pietà frenata dall’impegno di capire a fondo le motivazioni del personaggio è il tono più convincente del film» (Kezich). «Malgrado alcune incertezze […] il film annovera una maturità stilistica, una scrittura elegante e morbida, una perizia descrittiva raggiunta con l’impiego di mezzi scarni: qualità queste emarginate, nella nostra cinematografia» (Argentieri).

mercoledì 17

ore 17.00

Anche i commercialisti hanno un’anima (1994)

Regia: Maurizio Ponzi; soggetto: Umberto Marino; sceneggiatura: M. Ponzi, Franco Ferrini, Enrico Vaime; collaborazione alla sceneggiatura: Antonello Dose, Marco Presta; fotografia: Carlo Alberto Cerchio; musica: Domenico Scuteri, Corrado Rizza, Gino Bianchi; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: Renato Pozzetto, Enrico Montesano, Sabrina Ferilli, Milena Vukotic, Pina Cei, Guido Nicheli; origine: Italia; produzione: Erre Cinematografica – Alto Verbano, in collaborazione con ReteItalia; durata: 110′

«Il film racconta la storia di tre personaggi diversi tra loro. Sonia, una ragazza molto superficiale, infatuata da qualunque novità le si presenti. Roberto, il suo fidanzato, un tipo tranquillo, impiegato alla Corte dei Conti, è tormentato da Sonia che lo vorrebbe più arrivista. Lo vorrebbe come Carlo, faccendiere senza scrupoli, che Sonia guarda come esempio di uomo di successo. Dopo alterne vicende, che portano Carlo alla rovina, i tre si ritrovano sull’aereo che li porta in India al seguito di Cesira, una Buddista che organizza visite ad un santone» (www.cinematografo.it). Curiosa commedia dai toni cattivi che ritrae un’Italia smarrita, perduta nei facili miti del successo facile di “yuppistica” memoria o da un esotismo superficiale, poco religioso e molto “uso e getta”. Ponzi riesce poi a trarre il meglio dai suoi attori: un Pozzetto perfettamente cinico e freddo, un Montesano umanissimo nelle sue vulnerabilità e una strepitosa Ferilli nella parte di una ragazza vuota, umorale, senza arte né parte.

ore 19.00

Besame mucho (1999)

Regia: Maurizio Ponzi; soggetto: tratto liberamente dai romanzi Besame Mucho e Bella Ciao di Enrico Deaglio; sceneggiatura: M. Ponzi, Piero Spila, Stefano Tummolini; fotografia: Massimo Di Venanzo; musica: Antonio Di Pofi; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: Toni Bertorelli, Antonio Catania, Giuseppe Cederna, Giuliana De Sio, Duccio Giordano, Elena Russo; origine: Italia; produzione: Eurostar ’95; durata: 104′

«Le inchieste e gli articoli di Enrico Deaglio hanno il pregio di fissare persone e fatti nella semplicità densa del racconto. Al di qua del folklore della cronaca e dell’oggettività di un censimento sociologico. Il cinema italiano, di solito, annaspa quando deve inquadrare il presente e Maurizio Ponzi e i suoi collaboratori hanno fatto benissimo a scegliere e riscrivere alcune storie incontrate in due diversi libri del giornalista, Besame mucho e Bella ciao. La realtà di oggi si presta a una messa in scena corale (bravi gli attori) e i vari personaggi con le loro esperienze si sfiorano, legati da un filo lieve e resistente. Napoli è il set naturale: un condominio, i quartieri, le strade, le gallerie e la periferia. I temi: la burocrazia, le graduatorie per i trapianti, i documenti, le costruzioni abusive, gli immigrati, i soliti ignoti che tentano di svaligiare una banca, la droga e la malattia. Dentro questi temi, la generosità di un’attrice che utilizza il teatro e un testo di Oscar Wilde (Un marito ideale) come occasione per ritrovare una dignità, la solidarietà di Don Tommaso, la disubbidienza del chirurgo, le sofferenze, le frustrazioni, e il bene, nella sua ordinaria eccezionalità» (Magrelli).

ore 21.00

Madonna che silenzio c’è stasera (1982)

Regia: Maurizio Ponzi; soggetto: Francesco Nuti; sceneggiatura: F. Nuti, Elvio Porta; fotografia: Carlo Cerchio; musica: Barluna; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: F. Nuti, Edy Angelillo, Massimo Sarchielli, Gianna Sammarco, Mario Cesarino, Lucilla Baroni; origine: Italia; produzione: Hera International Film; durata: 95′

«Una giornata della sconclusionata vita di Francesco (Nuti), un giovane di Prato senza arte né parte: cerca lavoro, vince involontariamente un concorso per cantautori, va in bianco con una prostituta, si riconcilia con la fidanzata. Il primo film da protagonista di Nuti (che si farà dirigere da Ponzi altre due volte) fu quasi una rivelazione: giocato sui mezzi toni con una vena melanconica che non esclude la cattiveria, e girato con un ritmo stralunato che sembra modellato sul personaggio. Ma Nuti e Ponzi, in seguito, non si ripeteranno a questi livelli» (Mereghetti).

giovedì 18

ore 17.00

Volevo i pantaloni (1989)

Regia: Maurizio Ponzi; soggetto: dal romanzo omonimo di Lara Cardella; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Bruno Garbuglia, Roberto Ivan Orano, M. Ponzi; fotografia: Maurizio Calvesi; musica: Giancarlo Bigazzi; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: Giulia Fossà, Lucia Bosé, Natasha Hovey, Angela Molina, Pino Colizzi, Luciano Catenacci; origine: Italia; produzione: C.G. Group Tiger Cinematografica, Reteitalia; durata: 92′

«È la storia di Annetta, figlia di paesani siciliani, come la racconta la giovanissima Lara Cardella nell’omonimo best-seller. Annetta invidia i maschi di famiglia che ricevono attenzioni e hanno tutti i privilegi. Il suo desiderio è di mettere i pantaloni, quasi ad annullare l’inferiorità femminile che sente insopportabile» (Farinotti). Tratto dall’omonimo best-seller di Lara Cardella, Volevo i pantaloni, è un affresco duro e disperante di una Sicilia maschilista, adoperando una cifra stilistica melodrammatica, e per colonna sonora alcuni hit italiani degli anni Ottanta (Cosa resterà degli anni 80 e Ti pretendo).

ore 19.00

Qualcosa di biondo (1985)

Regia: Maurizio Ponzi; soggetto: Sergio Citti; sceneggiatura: Franco Ferrini, Gianni Menon, M. Ponzi, John Mc Greevey; fotografia: Roberto Gerardi; musica: Georges Delerue; montaggio: Michael Brown (per la versione Usa), Sergio Montanari (per la versione italiana); interpreti: Sophia Loren, Edoardo Ponti, Daniel J. Travanti, Philippe Noiret, Ricky Tognazzi, Angela Goodwin; origine: Usa; produzione: Shaftesbury Investiments, Peregrine Producers Group, New Team; durata: 102′

«Fiaba sentimentale più qualche impertinenza, per celebrare mamma Sophia col suo figlioletto Edoardo e far contento, insieme alla grande provincia americana, il pubblico nostalgico del divismo. Non sono infatti gli ingredienti popolari a mancare in Qualcosa di biondo […]. Trattasi addirittura di bella madre nubile con bambino cieco, avuto chissà da chi, al quale si schiuderebbe speranza di guarigione ove in casa ci fossero i soldi per un chirurgo svizzero. È perché non ci sono che Aurora, già cameriera in un albergo del Salernitano, oggi tassista, risale l’Italia con annessa roulotte in cerca degli uomini con cui giacque, ed a ciascuno fa credere che è il padre del piccolo Ciro. Il copione prevede che, convenientemente ammaestrato, ogni volta il ragazzino si slanci verso l’uomo chiamandolo papà, e che mamma riscuota. […]. Qualcosa di biondo (il titolo allude al ricordo che Ciro, divenuto cieco a due anni, conserva della mamma), in polemica col cinema della violenza e degli erotomani, un film controcorrente: un sorridente elogio dell’italico bidone a fin di bene, con relativo applauso all’intraprendenza delle madri meridionali che viene premiata col trionfo dell’amore. […] L’interpretazione, con quei presupposti, non fa una grinza. Sophia Loren, la quale ha appunto dichiarato di trovare il personaggio di Aurora tagliato sulla sua misura, sta sempre sulla scena col puntiglio professionale che in lei ammiriamo, e fa la madre affettuosa e scaltra con raddoppiata verità (meno probabile è come tassista)» (Grazzini).

ore 21.00

Io, Chiara e lo Scuro (1983)

Regia: Maurizio Ponzi; soggetto: Francesco Nuti, M. Ponzi; sceneggiatura: Franco Ferrini, Enrico Oldoini, F. Nuti, M. Ponzi; fotografia: Carlo Cerchio; musica: Barluna; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: F. Nuti, Giuliana De Sio, Marcello Lotti, Renato Cecchetto, Novellantonio Novelli, Antonio Petrocelli; origine: Italia; produzione: Hera International Film; durata: 104′

«Madonna che chiasso c’è stasera… Chi mette a rumore il cinema italiano, e dà un bel sorso di ricostituente, è la coppia Francesco Nuti – Maurizio Ponzi, autori d’un film da comprendere fra i migliori della stagione brillante, di svariate lunghezze più riuscito di altri pur nati dal tronco dei cosiddetti “nuovi comici”. Distribuiti equamente i meriti fra quanti lo hanno scritto (a Nuti e Ponzi si affiancano Franco Ferrini ed Enrico Oldoini), recitato e diretto, siamo infatti persuasi che Io, Chiara e lo Scuro debba piacere a molti, e sul finire persino commuoverli: per l’originalità del racconto, la sua onestà intellettuale, la pulizia dei sentimenti, con una sola parolaccia ma finalmente al posto giusto, la freschezza degli attori e il brio delle situazioni. L'”Io” del titolo è Francesco Piccioli, che da quando vive a Roma tutti chiamano il Toscano. Di origini modeste fa il portiere in un “residence”: quando non lavora gioca al biliardo, e quando lavora ci pensa. Non ha ereditato dal nonno soltanto la passione della stecca: anche la sua virtù, e ne dà prova in una sala cittadino quando sfida, temerario, Marcello Lotti detto lo Scuro, un campione costretto da dieci anni a giocare da solo perché non ha più avversari. […] Chi è Chiara? È una coinquilina, a sua volta in cerca di successo come suonatrice di sassofono e cantante, con la quale i rapporti si sono venuti scaldando dopo uno schiaffo iniziale e uno scambio di valigette che ha portato l’uno e l’altra a uno scacco» (Grazzini).

venerdì 19

ore 17.00

Documentari di Maurizio Ponzi

ore 19.00

Presentazione di Elegia del volo, un film polifonico

Curiosissimo oggetto cinefilo, visto solamente alla dodicesima edizione del Roma Film Festival, Elegia del volo di Fabio Tanzarella, secondo Silvana Silvestri, «ci trasporta in Georgia al seguito del pittore Merab Surviladze, istallato in Belgio. La sua condizione di artista “migrante” per allontanarsi dalla guerra e trovare una situazione economicamente meno precaria, ci appare immediatamente come un poema, composto da uno sguardo capace di abbracciare i confini di un intero popolo. Anche Tanzarella è un regista che ha vissuto all’estero per anni: parte da un luogo nordico (i dintorni di Bruxelles), dove è istallato il pittore e trasforma quel luogo nella sua terra patria, sotto la travolgente presenza di una comunità di artisti. Basta un lungo tavolo attorno a cui riunirsi, suonare e soprattutto cantare insieme. “Il popolo che non canta più insieme ha perso la sua cultura” diceva Iosseliani. Il regista ci dice che si sente più vicino a Paradjanov e possiamo credergli con questo lavoro elaborato nel corso di sei anni con difficoltà concrete che si trasformano miracolosamente in ricchezza visiva, opulenza di sensazioni, dettagli storici e perfino notazioni sociologiche in un unico flusso poetico».

Elegia del volo (2007)

Regia: Fabio Tanzarella; soggetto e sceneggiatura: F. Tanzarella; fotografia: Ridha Ben Hmouda; montaggio: F. Tanzarella; interpreti: Merab Sourviladze, Keti Kechuashvili, Dominique Vande Voorde, Tamara Labadze, Lacha Mudjiri, Michail Totiauri; origine: Belgio; produzione: Angelo Curti per Teatri Uniti; durata: 72′

«Questo film è stato girato tra le campagne belghe, il deserto d’Azebaidjan e le rovine dei monasteri e delle industrie sovietiche georgiane. Attraverso frammenti di vita di una comunità di artisti georgiani immigrati in Europa, abbiamo cercato di suggerire in filigrana l’aldilà, dell’immagine e del suono. Siamo tutti pellegrini da e verso luoghi del tempo e dello spazio, in cerca di sinapsi, di ponti, di legami, colmi di un’ansia d’amare che cerca strade. In questa ricerca incontriamo altri compagni di viaggio, dai vissuti, dai costumi, dai linguaggi e dal destino umano diversi. Ma la cultura dell’uomo è una, e senza frontiere, quando l’energia dell’amore parla da cuore a cuore. Un’energia invisibile che nell’epifania del passato, nell’estasi della musica e nei passi di danza, ritorna con la voce degli antenati ad ispirare il canto di oggi» (Tanzarella).

Il film sarà presentato da Bruno Roberti

ore 21.15

Son contento (1983)

Regia: Maurizio Ponzi; soggetto: Francesco Nuti, M. Ponzi; sceneggiatura: F. Nuti, M. Ponzi, Enrico Oldoini, Franco Ferrini; fotografia: Carlo Cerchio; musica: Barluna; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: F. Nuti, Barbara De Rossi, Carlo Giuffré, Laurie Sue Sherman, Novellantonio Novelli, Riccardo Tognazzi; origine: Italia; produzione: Hera International Film; durata: 101′

«Terzo film di Maurizio Ponzi con Francesco Nuti. Un sodalizio fortunato, che ad ogni esperienza nuova da frutti più convincenti, più saldi. Questa volta ci si allontana un po’ dalla commedia, ma senza preferire il dramma, approdando a un genere in cui il sentimento e l’intelligenza si fanno privilegiare senza con questo dimenticare il sorriso […]. L’avvio lo dà la separazione di una coppia in crisi. Senza spiegazioni, senza dispute. Tutto è successo prima ed ora non resta che tirare le somme. Ma è lei, Paola, che vuole andare via; lui, Francesco, vorrebbe trattenerla ad ogni costo e tenta ancora un’ultima volta, con mille astuzie. […] Intimismo, psicologia, ma anche, nel calore e nel colore, vitalità di racconto, densità di rapporti interpersonali e, pur con una nota malinconica tenuta in primo piano lungo tutto l’arco dell’azione, un’ironia fine e garbata che dà sapori vivi ai caratteri persino nei passaggi più raccolti, quando ci si affanna e si soffre. […]. Erano anni che non mi accadeva di salutare sugli schermi italiani l’affermazione di un nuovo grande attore […]. Nuti ha tutte le qualità dell’attore vero, con una padronanza così piena dei propri mezzi espressivi che gli consente qui, […], di toccare tutte le gamme della commedia e del dramma […]. Lo attendono, immagino, tutti i premi dell’anno; come Ponzi del resto, un autore che ha tardato un po’ a farsi avanti ma che adesso è arrivato al traguardo. Per andare oltre» (Rondi).

sabato 20

ore 17.00

Noi uomini duri (1987)

Regia Maurizio Ponzi; soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, M. Ponzi; fotografia: Alessandro D’Eva; musica: Beppe Cantarelli; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: Renato Pozzetto, Enrico Montesano, Maria Angela Giordano, Isabel Russinova, Alessandra Mussolini, Jean Emile Louis; origine: Italia; produzione: C.G. Silver Film, Maura International Film, Cinecittà; durata: 98′

«Maurizio Ponzi ha sempre trovato congeniale per i suoi film la nevrosi dei trentenni di oggi, immergendo il privato nella commedia di costume; è ciò che fa con questo Noi uomini duri, piacevole racconto che il regista confeziona, sfuggendo all’esaurimento e all’imbarbarimento del genere, con mano leggera e divertita ricerca di gag. Da cinefilo acculturato qual è, Ponzi contrappone il ritmo della recitazione a un montaggio di contrappunto leggero e a rimandi ormai classici, Jerry Lewis in testa» (Spiga).

ore 19.00

Il tenente dei carabinieri (1986)

Regia: Maurizio Ponzi; soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, M. Ponzi; fotografia: Carlo Cerchio; musica: Bruno Zambrini; montaggio: Antonio Siciliano; interpreti: Enrico Montesano, Nino Manfredi, Massimo Boldi, Marisa Laurito, Claudio Botosso, Alessando Partexano; origine: Italia; produzione: C.G. Silver Film; durata: 110′

«Un duplice omicidio permette al solerte tenente dei carabinieri Cordelli (E. Montesano) di collegare lo spaccio di banconote false con un grosso colpo in una banca, risolvendo entrambi i casi. L’intrigo è complicato, ma in questa commedia-poliziesca-comica contano le divagazioni, i personaggi, i particolari, la pulizia della confezione. Effervescente Montesano, con una spalla di lusso come N. Manfredi e caratteristi usati bene» (Morandini).

ore 21.00

Il volpone (1987)

Regia: Maurizio Ponzi; soggetto: liberamente tratto dalla commedia Volpone di Ben Jonson; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Ottavio Jemma, M. Ponzi; fotografia: Sandro D’Eva; musica: Fabio Liberatori; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: Paolo Villaggio, Enrico Montesano, Enrico Maria Salerno, Renzo Montagnani, Alessandro Haber, Eleonora Giorgi; origine: Italia; produzione: Cecchi Gori Group Tiger Cinematografica; durata: 113′

«Una felice, felicissima commedia italiana. Ispirata ad una celebre commedia inglese di Ben Jonson che agli inizi del Seicento, sulle orme di Luciano e di Petronio, aveva riproposto la figura classica del captaror, il cacciatore dì eredità, che tanto spazio allegro aveva avuto nel teatro greco-romano. Il testo di Jonson si ambientava a Venezia, con nomi italiani a cominciare da quello del protagonista, Volpone appunto, e Venezia era rimasta come cornice anche nelle due precedenti versioni cinematografiche che vi si erano rifatte, il film di oggi, invece, […] si ambienta sulla riviera ligure, a Santa Margherita, spostando l’azione ai nostri giorni. […] Una storia così, che già nella sua stesura originale puntava sui vizi dei caratteri, l’insolenza del ricco, la bramosia e la bassezza dei meno ricchi, è diventata qui una coloratissima occasione per una ridda di personaggi disegnati sempre a tutto tondo, con un umorismo spinto ghiottamente fino alla caricatura. Dando il via a situazioni abilmente costruite e sempre ben collegate fra loro, frizzanti, ad ogni risvolto, di sorprese, con la possibilità di metter sempre in rilievo, fino addirittura alla maschera, i tratti più tipici delle singole psicologie andando a fondo, pur scherzando nelle bassure della cupidigia, dando rilievo, con qualche indulgenza, al cinismo del protagonista e a quello del domestico che, perfino più scaltro di lui, gli tiene bordone. […] Di questo va dato ampio merito anche alla regia di Maurizio Ponzi, tornato alla vitalità del suo cinema migliore e intento qui a reggere le fila del racconto con tutta la scioltezza necessaria: vivacissimo nei ritmi, molto abile nel dosare, anche con musiche secentesche, i tranelli e i colpi di scena e, soprattutto generoso di invenzioni e di attenzioni nei confronti degli interpreti un quintetto così colorito, succoso e bene impostato come si incontra di rado nel cinema italiano, pur tanto prodigo di caratterizzazioni festose» (Rondi).

domenica 21

ore 17.00

Documentari di Maurizio Ponzi

ore 18.30

Stefano junior (1969)

Regia: Maurizio Ponzi; soggetto e sceneggiatura: M. Ponzi; fotografia: Angelo Barcella; montaggio; M. Ponzi; interpreti: Massimo Martini, Stefano Ardinzone, Massimo Sarchielli; origine: Italia; produzione: Rai; durata: 40′

«Dopo I visionari, Stefano junior, un film di quaranta minuti prodotto per la RAI-TV. Ho accettato di realizzarlo perché mi era concessa piena libertà sulla scelta dell’argomento, nessun controllo sulla sceneggiatura e, inoltre, avevo voglia di raccontare la storia di un ragazzino. […] Stefano jumior si divide idealmente in quattro parti. La prima è decisamente neorealistica e fa da fondamenta dell’intero film. Preannuncia una storia priva di grandi fatti, racconta quietamente, più pensando all’Olmi di Il tempo si è fermato che a Rossellini. […] La seconda è una grande parentesi musicale. […] Fra uno Straub molto meno severo […] e uno Stanley Donen senza technicolor. La terza parte – il lavoro di Stefano, la pausa al flipper – è praticamente muta […], filmata come una comica. […] Questa seconda e terza parte, però, restano impregnate di neorealismo. È su questo strato coriaceo che si esercita la mia attitudine di “visionario”. Una strada che non è più una strada, un sonoro che si volatilizza e lascia il posto al rumore d’un proiettore a 16, un’edicola che si bagna di ricordi adolescenziali. La quarta parte dovrebbe essere il risultato dell’operazione compiuta nelle prime tre, […] il trionfo della convenzione che diventa verità cinematografica, cioè rimane bello. Insomma servirsi di tutto per raggiungere due scopi: conoscere Stefano e chiarire le mie idee su un ragazzino che lavora, come Stefano. […]. Le quattro parti, comunque, restano omogenee; il pastiche non intacca che minimamente lo stile e Stefano junior diventa un film tenero e triste su un ragazzo che subisce un’umiliazione. E forse è questo che mi fa sperare d’essere un autore» (Ponzi).

Copia proveniente dalle Teche Rai – Ingresso gratuito

ore 19.30

Italiani (1996)

Regia: Maurizio Ponzi; soggetto e sceneggiatura: Luigi Guarnieri, Melania Gaia Mazzucco, M. Ponzi; musica: Bruno Zambrini; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: Giulio Scarpati, Giuliana De Sio, Tiziana Lodato, Ivano Marescotti, Marco Leonardi, Roberto Citran; origine: Italia; produzione: Videomaura; durata: 99′

«Siamo sulla Freccia del Sud, in corsa da Palermo a Milano, verso la metà degli anni Sessanta; e durante un viaggio, come insegnò in Ombre rosse il grande John Ford, succede di tutto. Qui sotto gli occhi ancora ingenui del ferroviere Giulio Scarpati sfila un campionario di umanità: c’è l’emigrante povero Luigi M. Burruano (da dove spunta questo magnifico attore?) con la figlia contesa da due pretendenti, c’è l’infermiera Giuliana De Sio che si abbandonerà a un breve incontro d’amore con lo scrittore Roberto Citran, c’è l’industrialotto Ivano Marescotti che pure accompagnato dal figlio adolescente ha sistemato nella cabina accanto l’amante Vanessa Gravina, c’è il pretino Claudio Bigagli che sgomento dovrà assistere al parto di emergenza della popolana Maria Grazia Cucinotta. Sono tutti bravissimi e cordialmente credibili, com’è credibile il treno su cui viaggiano: perché il regista, d’accordo con lo spericolato operatore Maurizio Calvesi, ha preteso di girare l’intero film negli spazi angusti e fra i disagi di un vero convoglio in movimento.
A un certo punto, però, la Freccia incrocia il treno che va nel senso opposto; e il bravo Scarpati, guardando dal finestrino, ha la sorpresa di vedere un altro se stesso, invecchiato, deluso, come succede spesso: “20 anni dopo”. […] Si ha modo di riflettere sull’originalità della vita nel sottofinale, in cui proprio come nel dramma priestleyano
Il tempo e la famiglia Conway si torna al passato con la consapevolezza di chi ormai sa a quali stazioni arrivano inevitabilmente i treni della vita» (Kezich).

ore 21.15

Tramways (1974)

Regia: Maurizio Ponzi; fotografia: Tonino Nardi; produzione: Pegaso Cinematografica; durata: 12′

Il cortometraggio di Maurizio Ponzi Tramways è una gradevole operina che ripercorre la storia del tram dall’inizio del ventesimo secolo ad oggi. Attraverso il montaggio di immagini di repertorio, Ponzi racconta, a grandi linee, ma in modo più che interessante, il progresso della tecnologia e il cambiamento di alcuni usi e costumi della nostra società viste proprio attraverso l’evoluzione, negli anni, delle linee e della forma di un mezzo di locomozione come il tram. Il lavoro risulta, nel complesso, divertente e si conclude simpaticamente con un valzer che accompagna il moto dei tram in varie città italiane (www.close-up.it).

Per gentile concessione della Ripley’s Home Video

a seguire

A luci spente (2004)

Regia: Maurizio Ponzi; soggetto: M. Ponzi ; sceneggiatura: M. Ponzi, Stefano Tummolini, Piero Spila; fotografia: Luigi Verga; musica: Antonio Sechi; montaggio: Luca Montanari; interpreti: Giuliana De Sio, Giulio Scarpati, Filippo Nigro, Andrea Di Stefano, Damiano Andriano, Francesca Perini; origine: Italia; produzione: Giuseppe Di Palma per Cinemart; durata: 118′

«Nella Roma del 1943-44, ancora occupata dai tedeschi, per evitare di doversi trasferire a Venezia dove il governo della Repubblica di Salò ha improvvisato una seconda Cinecittà, il regista Giovanni Forti (G. Scarpati) comincia le riprese di Redenzione, finanziato dal Vaticano. Sul set e nei suoi dintorni si intrecciano vicende private dei componenti delle troupe: filofascisti, antifascisti, attendisti e un importante uomo politico, nascosto nel convento dove si svolgono le riprese. Scritto da M. Ponzi con Stefano Tummolini e Piero Spila (fotografia di Luigi Verga), è liberamente ispirato alle traversie di La porta del cielo che V. De Sica girò nello stesso periodo. L’ironico titolo del film nel film è quello di una pellicola di propaganda fascista (1942), diretta da M. Albani e scritta dal gerarca/commediografo Roberto Farinaci» (Morandini).

Si ringrazia per la proiezione Giuseppe Di Palma (Cinemart)

lunedì 22

chiuso

martedì 23

Carta bianca a… Marcello Garofalo

Voltandosi alla luce di una fiamma, il conformista cerca ancora una volta “l’impressione della normalità”. Tre esempi (uno di questi modello) di cinema che tende a ricercare questa traccia ma non la raggiunge, deviando straordinariamente da un (presupposto) sentiero di consuetudine narrativa in strade di furente e incontrollabile autorialità.

La colonna infame-Tony Arzenta (Big Guns)-Il conformista: Nelo Risi adopera come pretesto la Storia, una Storia manzoniana, Duccio Tessari il compendio di una “pulp fiction” inesistente e quindi essenzializzata al massimo, Bernardo Bertolucci un (il) romanzo di Alberto Moravia. Sicché la differenza fra i tre titoli può apparire soltanto in altro modo: i grandi continuum di reale e immaginario in Risi (la Storia che attraversa la Letteratura e la consegna al Cinema), opposti ai blocchi discontinui e agli artigianali “gut shock” di Tessari, e ai flashforward di Bertolucci che anticipano le memorie dell’inconscio di personaggio e spettatore.

Marcello Garofalo

ore 17.00

La colonna infame (1973)

Regia: Nelo Risi; soggetto: Nelo Risi, dall’opera omonima di Alessandro Manzoni; sceneggiatura: Vasco Pratolini, N. Risi; fotografia: Giulio Albonico; musica: Giorgio Gaslini; montaggio: Gian Maria Messeri; interpreti: Helmut Berger, Vittorio Caprioli, Francisco Rabal, Lucia Bosè, Pier Luigi Aprà, Salvo Randone; origine: Italia; produzione: Filmes; durata: 102′

«Con la collaborazione alla sceneggiatura di Vasco Pratolini, Nelo Risi mette in scena la cronaca del processo aberrante agli untori che si celebrò in Milano durante la pestilenza del 1630 in mezzo a illegalità e torture.

La ricostruzione degli esterni milanesi e del palazzo di giustizia (architetto Giuseppe Bassan) “come un dantesco cono rovesciato di carattere infernale” fa sì che la profondità scatenata appartenga al tempo, non più allo spazio. Magnifico doppiaggio di livello radiofonico. Resta (complice la Messa da Requiem di Verdi) la pura apparizione alla coscienza della violenza di quei fatti “assurdissimi e atrocissimi” sintomatici di ogni forma di persecuzione e d’ingiustizia» (Garofalo).

ore 19.00

Tony Arzenta (Big Guns) (1973)

Regia: Duccio Tessari; soggetto: Franco Verucci; sceneggiatura: Ugo Liberatore, F. Verucci, Roberto Gandus; fotografia: Silvano Ippoliti; musica: Gianni Ferrio; montaggio: Mario Morra; interpreti: Alain Delon, Richard Conte, Carla Gravina, Marc Porel, Giancarlo Sbragia, Umberto Orsini; origine: Italia/Francia; produzione: Mondial Te.Fi., Adel Productions, Lira Films; durata: 115′

«La morte evocata, desiderata, necessaria del protagonista Delon, anticipata dallo spompettante tema musicale di Gianni Ferrio, nell’unico titolo perfettamente ibridato tra il “poliziesco all’italiana” e il “polar” diretto da Tessari con una violenza pletorica e quasi “godardiana” (“non è rosso, è sangue”) e capace di rappresentare (scherzando su) quella che Bertolucci definì, a proposito di Nick’s movie, «l’immense frivolité des mourants».

La canzone L’appuntamento cantata da Ornella Vanoni sugli opening titles (preceduta dal marchio Titanus) con i più bei nomi del cinema di genere italiano che scorrono in successione è un esempio di cine-seduzione popolare altissimo. Scena di “car chase” indimenticabile e molto “death proof”, che Tarantino deve avere per forza ammirato prima di Grindhouse. Rigorosamente (e meravigliosamente) vietato ai minori di 18 anni» (Garofalo).

ore 21.00

Il conformista (1970)

Regia: Bernardo Bertolucci; soggetto: dal romanzo omonimo di Alberto Moravia; sceneggiatura: B. Bertolucci, Franco Arcalli; fotografia: Vittorio Storaro; musica: Géorges Delerue; montaggio: Kim [Franco] Arcalli; interpreti: Jean-Louis Trintignant, Stefania Sandrelli, Dominique Sanda, Pierre Clémenti, Gastone Moschin, José Quaglio; origine: Italia/Francia; produzione: Mars Film Produzione, Marianne Productions, Maran Film; durata: 113′

«Secondo la bella formula di Sant’Agostino, esiste un presente del futuro, un presente del presente, un presente del passato, tutti implicati nell’avvenimento, arrotolati nell’avvenimento, dunque simultanei, inesplicabili (Gilles Deleuze, L’immagine-tempo). Soltanto Il conformista di Bertolucci e l’America di Leone (grazie anche alla partecipazione di Franco Arcalli in entrambi i titoli) per me li hanno rappresentati» (Garofalo).

mercoledì 24

ore 18.00

Presentazione del volume 8 ½ raccontato dagli Archivi Rizzoli e del documentario Imago, l’immaginario di Federico Fellini

Realizzato in sinergia tra il Centro Sperimentale di Cinematografia e la Fondazione Federico Fellini, il volume 8 ½ raccontato dagli Archivi Rizzoli, appena edito, rappresenta il secondo degli appuntamenti  programmati col grande regista riminese. L’uscita di questo secondo volume, dedicato al film 8 ½, considerato tra i massimi capolavori di Federico Fellini, costituisce il seguito di un progetto curato dalla Divisione Biblioteca ed Editoria del CSC che mira, dopo la prima pubblicazione dal titolo Giulietta degli spiriti raccontato dagli Archivi Rizzoli (2005), a raccontare, attraverso un’accurata selezione di articoli, copertine di periodici e illustrazioni, i risvolti psicologici e di costume legati alla realizzazione del film e alla figura di uno degli artisti più prestigiosi ed emblematici del cinema italiano. La rassegna stampa che ha accompagnato l’uscita dell’opera cinematografica, raccolta negli uffici della produzione stessa – la Rizzoli – e in seguito depositata e catalogata presso la Biblioteca “Luigi Chiarini” del Centro Sperimentale di Cinematografia, è ora ordinata e riprodotta in un volume riccamente illustrato. Indiscrezioni, annunci, pettegolezzi, scandali, gossip, che ci offrono molteplici chiavi di lettura e di ricerca sull’opera del  grande cineasta italiano. 8 ½ raccontato dagli Archivi Rizzoli, a cura di Domenico Monetti e Giuseppe Ricci, si avvale della prefazione di Gian Luigi Rondi ed è già disponibile per l’acquisto sul bookshop della Biblioteca del CSC.

Dalle parole all’immagine in movimento: il documentario Imago, l’immaginario di Federico Fellini nasce da una lunga appassionata ricerca da parte degli autori Leopoldo Antinozzi e Alessandro De Michele nell’immaginario di Federico Fellini: una ricerca alimentata dal costante contatto con colui che fu per quarant’anni l’amico spirituale del regista: Padre Angelo Arpa, fondatore della Fondazione Interregionale Europa e Comunità Mondiale, presieduta da Francesca Sifola. Ideale chiusura a iride per una giornata dedicata a Federico Fellini è la proiezione di uno dei capolavori del maestro riminese: 8 ½.

La serata è in collaborazione con Mediaset – Cinema Forever.

a seguire

Imago, l’immaginario di Federico Fellini (2008)

Regia: Leopoldo Antinozzi, Alessandro De Michele; origine: Italia; produzione: Fondazione Interregionale Europa, Comunità Mondiale; produzione esecutiva: Cometa Produzione Cine Tv s.n.c. di Ivana Mattei, Almaz Film Productions SA; durata: 110′

Il documentario percorre la sfera dell’immaginario di Federico Fellini ed affronta la straordinaria intensità della sua vena artistica, attraverso una serie di testimonianze inedite di personalità che sono state particolarmente vicine al maestro e l’aiuto di quel linguaggio delle immagini di cui il regista è stato poeta, profeta e cantore. Gli intervistati sono: lo psicoanalista Mario Trevi, confidente delle sue fantasie più inconsce; Padre Angelo Arpa, amico e consigliere fraterno per oltre quarant’anni; lo sceneggiatore Tonino Guerra e lo scenografo Rinaldo Geleng, collaboratori fedeli nella realizzazione di molti film di Fellini; il suo segretario fiduciario Enzo De Castro e la sua segretaria di edizione Norma Giacchero, che lo hanno seguito per oltre 25 anni; l’attrice Olimpia Carlisi e lo scrittore Gianfranco Angelucci, amici e collaboratori per oltre vent’anni; il poeta Andrea Zanzotto e il latinista Luca Canali, collaboratori e compagni fraterni in molti film. A partire dalla scena emblematica in cui il personaggio del film mai realizzato da Fellini, Giuseppe Mastorna, entra in campo e si ferma davanti all’immagine della grande impalcatura su cui si sorregge il profilo della cattedrale di Colonia, il documentario alterna le testimonianze personali con le sequenze dei film e le immagini di repertorio. Si seguirà uno sviluppo ragionato secondo i passi che il regista abitualmente compiva alla realizzazione di ogni sua opera: Film da fare – L’idea di un film – I disegni e le facce – L’inizio delle riprese – Il film concluso. La scena iniziale del Mastorna contestualmente subisce un’evoluzione tale da sottolineare l’essenza fantastica delle immagini felliniane, di volta in volta ricostruite nel grande Studio 5 di Cinecittà, concepito, nel nostro documentario, come il crogiolo alchemico in cui Fellini riusciva a trasformare il sogno in realtà e la realtà in sogno.

ore 21.00

8 ½ (1963)

Regia: Federico Fellini; soggetto: F. Fellini, Ennio Flaiano; sceneggiatura: F. Fellini, Tullio Pinelli, E. Flaiano, Brunello Rondi; fotografia: Gianni Di Venanzo; musica: Nino Rota; montaggio: Leo Catozzo; interpreti: Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Anouk Aimèe, Sandra Milo, Madeleine Lebeau, Mario Pisu; origine: Italia/Francia; produzione: Cineriz, Francinex; durata: 140′

«Con uno stile che, solo paragonabile per certo suo lirismo ai momenti più compiuti della Strada, supera di gran lunga La dolce vita per maturità espressiva, per ricchezza visiva, per corposità di ritmo, per sapienza linguistica e tecnica. Si veda, ad esempio, la cornice dell’azione, quella cittadina termale con i suoi alberghi stile “Liberty” che potrebbe essere Aix-en-Provence di cinquant’anni fa se non sapessimo, invece, che è tutta finta […]. Si vedano quei caffè di provincia, quei concertini con musiche fine secolo, ascoltati da un colorito esercito di villeggianti, e quel ritmico alternarsi delle cure, in un’atmosfera ora di balletto, ora di tregenda, tra i fumi dei soffioni, le acque, i bagni, le sorgenti […]. E i ricordi? Il familiare candore di quei muri bianco calce della casa dell’infanzia […] e il livido biancore, invece, di quelle mura del collegio dove, tra banchi neri, neri confessionali e nere silhouettes di preti severissimi, ossessionati dall’idea del peccato della carne, il piccolo Guido si vedrà per sempre inculcata l’antinomia tra la donna-diavolo e la madre-Vergine, propria di una certa educazione cattolica. Ogni scena, ogni sequenza hanno la loro funzione drammatica, il loro valore emotivo, il loro esatto peso figurativo […]. Completa un’opera tanto perfetta, e non di rado geniale, una interpretazione felice non solo negli attori maggiori, ma anche nei meno noti, tutti scelti con la più estrosa intuizione somatica» (Rondi).

Copia restaurata proveniente da Mediaset – Cinema Forever

25-30 settembre

Da qualche parte in Ungheria. Omaggio a István Gaál – Rassegna di cinema ungherese

Ad un anno esatto dalla scomparsa di István Gaál (25 agosto 1933-25 settembre 2007) questa rassegna intende rendere omaggio a un grande regista ungherese, che fu allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia dal il 1959 al 1961, anno in cui si diplomò. Da allora il regista ungherese è sempre rimasto legato all’Italia e a Roma, a cui ha dedicato tra l’altro il bellissimo documentario Római Szonáta (1996) («Sono arrivato a Roma più di trent’anni or sono. L’incontro assomigliava a uno sposalizio e io da allora sono rimasto un innamorato fedele», dichiara lo stesso Gaál). Il regista ungherese tornerà al CSC tra il ’78 e ’79 come visiting professor su invito di Guido Cincotti, quando era diventato un regista ormai affermato (nel 1970 il suo MagasiskolaI falchi –, aveva vinto il premio della giuria a Cannes). A proposito del suo legame con l’Italia il regista ungherese ebbe a scrivere: «È molto difficile raccontare in breve i motivi della riconoscenza che nutro nei confronti dell’Italia. Posso dire innanzitutto che è stato questo paese a farmi capire che avevo ragione io e non quelli che, nell’Ungheria degli anni ’50, si sforzavano di imporre le ideologie nelle opere d’arte».

Tornato in patria, Gaál esordisce nel 1963 con quello che forse è il suo capolavoro, Sodrásban, film che segna la nascita della novelle vague danubiana, ottenendo un enorme successo di critica; sin da allora si occupa sia della sceneggiatura che del montaggio di ogni suo film, alternando nella sua produzione film di narrazione a documentari. Oltre a essere fotografo di pregevole valore, spicca il suo interesse per la musica a cui ha dedicato diversi lavori, tra cui la notevolissima messa in scena dell’opera di C.W. Gluck Orpheusz és Eurydiké (1985), fino ai documentari su Béla Bartók. Paolo Vecchi gli ha dedicato recentemente una monografia dal titolo Radici. Radici è anche il titolo del documentario su Bartók, ma in realtà ha per Gaál un significato più profondo: «Ho cominciato, coscientemente, a guardare bene gli alberi e le loro radici: come si collocano e fino a quale profondità arrivano sottoterra. Senza struttura non si fa niente».

Questa rassegna intende rendere un omaggio a un allievo del CSC che, malgrado i numerosi riconoscimenti internazionali, in Italia è noto solo ai critici e agli appassionati del cinema magiaro. Assieme a una selezione di film di Gaál verranno proiettati alcuni film ungheresi del passato e degli ultimi anni, per offrire un panorama, certamente non esaustivo, della cinematografia magiara dell’ultimo ventennio, poco prima della fine del regime comunista e negli anni successivi, quando le nuove regole del libero mercato hanno profondamente cambiato anche il modo di fare cinema di tutti i registi, da quelli già affermati ai giovani esordienti.

Il cinema ungherese vanta lontane e importanti tradizioni, a cominciare dal lavoro di Béla Balázs che già negli anni venti, col suo noto saggio sulla teoria filmica, dava un contributo notevole alla nascente settima arte. Ed allo stesso Balázs si sono ispirati i cineasti magiari che, nel rinnovamento complessivo che ha attraversato il cinema negli anni sessanta, davano vita allo “Studio B.B.” da cui sono usciti registi del calibro di Szabó, Jancsó, Sándor, Kovács, ormai universalmente noti. Registi che diffusero in occidente, con una notevole originalità, sia un’estetica raffinata nella composizione dell’immagine e nella struttura filmica, sia un impulso al rinnovamento del linguaggio, sia un attento rigore formale nella messa in scena, tanto che, negli anni settanta e ottanta poterono uscire dai loro confini e impostare coproduzioni con altri paesi, Italia compresa (e qui non possiamo non citare le collaborazioni che realizzò Miklós Jancsó, in compagnia del fido sceneggiatore Gyula Hernádi e della nostra Giovanna Gagliardo, da La pacifista a La tecnica e il rito – entrambi del 1971 -, dal discusso Vizi privati e pubbliche virtù del 1976 a Il cuore del tiranno del 1981) imponendosi quindi sul mercato internazionale.

Con questa rassegna s’intende dunque fornire visioni, spesso inedite, di una cinematografia di cui invece oggi poco o nulla transita nei circuiti commerciali e che solitamente si frequenta esclusivamente nell’ambito dei festival internazionali, ma che al contrario continua a mostrare, pur nelle difficoltà produttive che le nuove strategie di mercato impongono all’indomani della caduta del regime, una vitalità e un’attenzione al linguaggio d’autore sorprendenti. Accanto ai vecchi maestri si è sviluppata una generazione di cineasti di alto livello e ciò è un segnale non trascurabile e che meriterebbe una più giusta attenzione, specialmente poi quando mietono successi nei festival o nelle sale del resto d’Europa. Film come Kontroll (2003) del giovane Nimród Antal si è imposto a Cannes, a Chicago, a Philadelphia. János Szász, che lavora quasi sempre su testi letterari, prima dell’intenso Opium (2006) ha firmato, nel decennio precedente, alcuni piccoli gioielli pluripremiati, che presentiamo in questa rassegna: Witman fiúk (1997), tratto come Opium dai racconti dello scrittore ungherese Géza Csáth – che oltre ai premi per la regia ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti anche per la fotografia di Tibor Máthé – e Woyzeck (1994), ulteriore trascrizione del dramma di G. Büchner in chiave moderna, premiato tra l’altro al Bergamo Film Meeting.

Rassegna, curata da Marco Belocchi e Lorenzo Pompeo, in collaborazione con Associazione culturale Cineforum Cinit “Luis Bunuel”, Accademia d’Ungheria, Magyar Filmuniò, Associazione culturale “Altreurope”.

giovedì 25

ore 17.00

Szerelem (Amore, 1970)

Regia: Károly Makk; soggetto: da due racconti di Tibor Deéry; sceneggiatura: Péter Bacsó; fotografia: János Tóth; musica: András Mihály; montaggio: György Sívó; interpreti: Lili Darvas, Mari Töröcsik, Iván Darvas, Erzsi Orsolya; origine: Ungheria; produzione: Hungarofilm, Mafilm Stúdió 1; durata: 84′

Budapest, 1953. Nel clima stalinista del sospetto e della paura, János è in carcere per ragioni politiche. Luca, sua moglie, ignorando se il marito sia ancora vivo, assiste comunque la madre invalida di János e mostrandole delle lettere false, le fa credere che il figlio stia lavorando a un film negli Stati Uniti. Quando Luca viene a sapere che il marito è vivo, l’anziana madre muore prima che János riacquisti la libertà. Desunto da 2 racconti di Tibor Déry, il maggiore scrittore magiaro della sua generazione, il film, confronto a porte chiuse tra la giovane Töröcsik e l’anziana Darvas, vedova dello scrittore Ferenc Molnar, è uno struggente esempio di cinema da camera. Gran Premio della Giuria e Premio come migliori attrici a Cannes.

«Amore è uno splendido esempio di come si possa far rivivere le vicissitudine storiche di un’intera epoca attraverso il dramma da camera di singoli personaggi. Il film si svolge attorno a tre protagonisti, in un appartamento mostrato nei più segreti recessi, dall’aspetto squallido, seguendo i ricordi di una vecchia signora e le sue associazioni di idee, e tuttavia quante cose vi si racchiudono! Amore è andato oltre i metodi dei film cui si ispirava anche per il fatto che, nonostante l’azione si svolga in un tempo reale più o meno definito, la vita interiore dei personaggi corre per lo più sui binari del sogno, dell’immaginazione, del ricordo» (Miklós Györffy).

ore 19.00

Megáll az idö (Il tempo sospeso, 1982)

Regia: Péter Gothár; soggetto e sceneggiatura: P. Gothár, Géza Bereményi; fotografia: Lajos Koltai; musica: György Selmeczi; montaggio: Mária Nagy; interpreti: Anikó Iván, István Znamenák, Henrik Pauer, Sándor Söth, Péter Gálfy; origine: Ungheria; produzione: Budapest Filmstúdió; durata: 103′

Budapest 1963. Denes e Gabor vivono con la madre e dal 1956 non vedono il padre, esule politico. Vorrebbero fuggire in America, arrivano al lago Balaton. Storia amara di ragazzi e ragazze, di sesso, di amori, di suicidi, di deriva, di ribellioni sterili, di vuoto dentro: una generazione perduta, senza modelli, Coca-Cola e musica rock. Gothár sa raccontare gli altri, impegnandosi con tutto se stesso.

«Il tempo sospeso rivolge uno sguardo nuovo sugli anni posteriori al 1956, lo sguardo d’ un adolescente su un periodo tetro in cui i genitori tacevano e i liceali soffocavano. Il tutto con una messa in scena, anch’essa soffocante, in cui i personaggi si muovono in un’atmosfera di gelida foschia. Un film limite astratto, dunque, in una situazione concreta» (Emile Breton).

ore 21.00

Kontroll (2006)

Regia: Nimrod Antál; soggetto e sceneggiatura: N. Antál, Jim Adler; fotografia: Gyula Pados; musica: Neo; montaggio: István Király; interpreti: Sándor Csányi, Sándor Badár, Zoltán Mucsi, Zsolt Nagy, Csaba Pindroch, Eszter Balla; origine: Ungheria; produzione: Café Film, Bonfire; durata: 106′

Interamente girato nella metropolitana di Budapest, la più vecchia dell’Europa continentale, Kontroll è un thriller d’azione, quasi in cadenze da western sotterraneo che fa capo a un energico ispettore/sceriffo alle prese con abusivi senza biglietto, due gruppi rivali di controllori cialtroni e un assassino diabolicamente intelligente. Scazzottate, inseguimenti e pericolosi cimenti di railing (corse su binari davanti all’ultimo treno notturno che rientra in deposito). Il giovane e talentuoso regista Nimrod Antál (1973), nato a Los Angeles, laureato a Budapest, riesce a suggerire un universo livido e claustrofobico in bilico sul grottesco e sul surreale. Pluripremiato al festival di Karlovy Vary e Prix de la Jeunesse a Cannes 2004.

«Si tratta di un prodotto capace di suscitare risate, di mostrare orrori tutt’altro che fantastici, di sfruttare momenti d’azione e violenza e romanticismo, costruendo una vicenda che mette in scena concreti personaggi i quali non fungono altro che da campioni di realtà per raccontare una dimensione in cui cercare di fuggire da se stessi, attraverso una sceneggiatura (ad opera dello stesso regista) che, apparentemente discontinua, non sembra essere altro che una versione allegorica dell’imprevedibile andamento della vita» (Francesco Lomuscio).

venerdì 26

ore 17.00

Nekem lámpást adott kezembe az Úr, Pesten (Il Signore mi ha dato una lanterna a Pest, 1999)

Regia: Miklós Jancsó; soggetto e sceneggiatura: M. Jancsó, Ferenc Grunwalsky, Gyula Hernádi, Ágnes Ágai; fotografia: Ferenc Grunwalsky; musica: György Ferenczi; montaggio: Zsuzsa Csákány; interpreti: Zoltán Mucsi, Péter Scherer, József Szarvas, Gyula Hernádi, M. Jancsó; origine: Ungheria; produzione: 3J+1Bt., Kreatív Média Mûhely; durata: 103′

«Sorta di testamento barocco in cui, tutto preso dalla gioia vorticosa di filmare, Jancsó si mette in scena – e a morte – con il suo sceneggiatore e amico Gyula Hernádi. Questo film dice – con i soli movimenti di macchina, saltando di palo in frasca, dal cimitero ad un’impresa riacquistata da truffatori, da un ricevimento mondano ai preparativi pieni di chiacchiere per un suicidio fallito su un ponte del Danubio – quando si crede tutto perduto restano il cinema e la felicità di donare un film agli altri, quegli spettatori che l’attendono senza sapere che è di questo, di questo granello di follia che hanno bisogno» (Emile Breton).

ore 19.00

Édes Emma, drága Böbe – vázlatok, aktok (Dolce Emma, cara Böbe, 1992)

Regia: István Szabó; soggetto e sceneggiatura: I. Szabó, Andrea Vészits; fotografia: Lajos Koltai; musica: Tibor Mornai, Mihály Móricz, Feró Nagy; montaggio: Eszter Kovács; interpreti: Johanna Ter Steege, Enikö Börcsök, Péter Andorai, Éva Kerekes, Erzsi Pásztor; origine: Ungheria; produzione: Objektív Filmstúdió Vállalat, Vidovox Stúdió, Audio Kft., Manfred Durniok Prodiktion; durata: 78′

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1989, due insegnanti di russo sono costrette a riciclarsi passando all’inglese: Emma s’arrangia facendo la domestica in una famiglia ricca; Böbe, coinvolta in un giro di droga e prostituzione, è arrestata e finisce suicida. Dopo un quartetto di eurofilm ad alto costo, Szabó fa un piccolo, povero, disincantato film sull’Ungheria nel confuso passaggio dal socialismo all’economia di mercato. Pur con squilibri narrativi e sbandamenti stilistici, è una storia raccontata con sconsolata lucidità e un finale dolorosamente memorabile. Premio speciale della giuria al Festival di Berlino.

«L’unica colpa di Emma, di Böbe e delle altre vittime innocenti dei cambiamenti politici è quella di aver vissuto in un regime che oggi tutti vogliono dimenticare, gettare nella pattumiera assieme a tutto ciò che, fino al 1989, era importante per loro: le idee, l’insegnamento del russo, i valori d’onestà e dignità. Ora l’ordine dei valori è capovolto e d emerge il vuoto, mancano quei punti di riferimento ideologici o morali che potrebbero aiutare l’individuo a porsi nuovi obiettivi. Emma e Böbe non hanno voce in capitolo, al massimo possono assistere ai cambiamenti che avvengono nella scuola. Con gli stessi occhi stupefatti di Apa, che ha assistito alla sostituzione dello stemma coronato con la stella rossa sul muro della scuola, le due donne assistono alla sostituzione dello scudo con la spiga di grano con quello coronato. Quest’opera amara semplice e pura è nata probabilmente dal senso di responsabilità per la sorte della gente innocente, nonché dalla giusta indignazione nei confronti di una società che dovrebbe impedire l’emarginazione totale dei suoi cittadini, ma non lo fa» (Ezster Fazekas).

ore 21.00

Az én XX. Századom (Il mio XX secolo, 1989)

Regia: Ildikó Enyedi; soggetto e sceneggiatura: I. Enyedi; fotografia: Tibor Máthé; musica: László Vidovszky; montaggio: Mária Rigó; interpreti: Dorotha Segda, Oleg Jankovskij, Péter Andorai, Gábor Máté, Paulus Manker; origine: Ungheria, Germania, Cuba; produzione: Budapest Filmstúdió, Fridlander, Hamburger Filmbüro, Istituto Cubano del Arte e Industrias Cin.; durata: 102′

Due gemelle di Budapest, orfane, che vendono fiammiferi nella notte di Natale, sono separate dal destino e si ritrovano, ignare, vent’anni dopo, sull’Orient Express: l’una fille de joie e avventuriera in prima classe, l’altra anarchica con voglia di attentati in terza classe. Saranno amate dallo stesso uomo, con i buffi equivoci del caso. Intanto, di là dall’Atlantico, Thomas Alva Edison inventa la lampadina elettrica e altri meravigliosi marchingegni. Estroso omaggio al cinema muto con frequenti citazioni del melodramma musicale, in bilico tra favola e racconto d’avventure, è una originale commedia ironica, ricca di gag intelligenti, qua e là appesantita da una compiaciuta esibizione di bravura. Caméra d’or al Festival di Cannes 1989 per l’opera prima.

«Az én XX. Századom (Il mio XX secolo) guarda il futuro dagli ultimi minuti dell’ottocento. Registra il momento in cui si poteva guardare al novecento come al secolo delle possibilità senza limiti: il secolo della luce, dell’elettricità, del telegrafo, della comunicazione, il secolo in cui l’uomo sicuramente avrebbe conquistato la padronanza della tecnica senza perdere il rapporto con la natura. Az én XX. Századom è la storia di un triangolo d’amore che si basa sul miracolo, sulla stupefazione, sulla civetteria, sull’innocenza e sulla genuinità» (Balázs Varga).

sabato 27

ore 17.00

Valahol magyarországon (In qualche luogo in Ungheria, 1987)

Regia: András Kovács; soggetto e sceneggiatura: A Kovács; fotografia: Ferenc Szécsényi; montaggio: Ferenc Szécsényi; interpreti: Péter Blaskó, Imre Csiszár, Mari Szemes, Anna Kubik; origine: Ungheria; produzione: Dialóg Filmstúdió; durata: 96′

Funzionari di partito tentano di arrestare lo slancio di un popolare candidato alle elezioni in questo dramma politico. Bodnar, opponendosi al progetto di una cava nella zona, è riuscito ad ottenere un largo consenso. Con due attempati prestanome volti alla sconfitta nelle elezioni appena proclamate, i funzionari di partito tentano di screditare il padre di Bodnar. Il risultato è un fallimento e Bodnar vince le elezioni, ma il suo dipendente è un funzionario che precedentemente aveva tentato di incastrarlo.

«Vanno citati il coraggio contenutistico e la serratezza del racconto di Valahol Magyarorszagon (“da qualche parte in Ungheria”), sul recente provvedimento elettorale che prescrive l’obbligo della presentazione di almeno due candidati e le resistenze e gli imbrogli di una “vecchi guardia” male… abituata: il finale del film è anche un auspicio, da parte di Kovacs, perché si vada ancora più avanti, sulla strada della vera democrazia, e Kovacs, grande regista di film-dibattito e di film politici, non è qui indegno della sua fama» (Giacomo Gambetti).

ore 19.00

Cserepek (Cocci, 1980)

Regia: István Gaál soggetto e scenggiatura: I. Gaál; fotografia: József Lörincz; musica: Gábor Presser, András Szöllösy; montaggio: I. Gaál; interpreti: Zygmunt Malanowicz, Katalin Gyöngyössy, Tamás Horváth, Irma Patkós, Edit Soós; origine: Ungheria; produzione: Budapest Filmstúdió; durata: 91′

András Vígh, 40 anni, divorziato, fa di professione l’architetto di interni. Nonostante i suoi successi professionali anche all’estero, è scontento del proprio lavoro, del proprio ambiente e soprattutto di se stesso. Spinto anche dai suoi incubi ricorrenti, si rivolge ad uno specialista. Non aspetta una soluzione ai suoi problemi solo dalla psicoterapia, ma cerca lui stesso di trovarne le radici rievocando tutti gli strazi della propria vita. Gli sembra però impossibile rimetterne a posto i cocci, trovare le cause delle sue continue angosce, del suo senso di vuoto. Alla fine sembra delinearsi un raggio di sole, una via d’uscita: la solidarietà di un’altra persona.

«Cserepek rivela in modo ricco e complesso i rapporti tra l’uomo e il mondo che lo circonda, sia dal punto di vista morale e psicologico, sia da quello sociale e metafisico Il film per Gaál rappresenta sempre la totalità stessa, e non dimentica mai nemmeno il fatto che esso è, nello stesso tempo, anche spettacolo. Oltre a questo, Cserepek rappresenta il nuovo tassello di un’opera costruita con grande coerenza ormai da vent’anni, con grande disciplina e originalità artistiche» (Michel Ciment).

ore 21.00

Holt vidék (Paesaggio morto, 1972)

Regia: István Gaál; soggetto e sceneggiatura: I. Gaál; dialoghi: Péter Nádas; fotografia: János Zsombolyai; musica: András Szöllösy; montaggio: I. Gaál; interpreti: Mari Töröcsik, István Ferénczi, Irma Patkós, Ferenc Paláncz; origine: Ungheria; produzione: Mafilm IV, Játékfilmstúdió; durata: 95′

L’industrializzazione ha spopolato un paesino dell’Ungheria meridionale. Sono rimasti tre abitanti: Anti e Juli, giovani sposi (con un figlioletto che va a scuola in una cittadina vicina e torna il sabato), e la loro vecchia zia Erzsi. Mentre Anti lavora duramente come contadino e tagliaboschi, Juli, sempre più sola e irrequieta, vorrebbe uscire da quella solitudine. La vecchia muore senza poter rivedere il figlio emigrato in Canada che arriva con la famiglia per il funerale e riparte. Juli, disperata, si suicida. Quinto film di lungometraggio di Gaál, scritto con Péter Nádas. Pur innervato di un lucido impegno politico (Gramsci filtrato da Jaspers) e radicato in una precisa realtà sociale, è un film di profondo pessimismo esistenziale. Lo sostengono un ammirevole senso dello spazio (del paesaggio) e l’interpretazione di Mari Töröcsik, premiata al Festival di Karlovy Vary.

«In un film lo spopolamento di un villaggio – come del resto qualsiasi altro argomento – potrebbe essere rappresentato in tanti modi dal punto di vista artistico. Ad esempio, potrebbe rievocare la situazione degli anni ’30, nonostante sia stato realizzato negli anni ’70. Potrebbe trasmettere l’idea di un’atmosfera di distruzione. Oppure anche quella di una fase, dolorosa ma naturale, dello sviluppo, come il travaglio del parto di un mondo, di una vita nuovi. E in questo caso, a nostro parere, ne sarebbe venuta fuori un’opera importante» (György Aczel).

domenica 28

ore 17.00

Orfeusz és Eurydiké (Orfeo ed Euridice, 1985)

Regia: István Gaál; soggetto: dal libretto di Raniero de’ Calzabigi; sceneggiatura: I. Gaál; fotografia: Sándor Kurucz, József Lörincz, Sándor Sára; musica: Christopher W. Gluck; montaggio: I. Gaál; interpreti: Sándor Téri, Enikö Eszenyi, Ákos Sebestyén; voci: Lajos Miller, Maddalena Bonifaccio, Veronica Kincses; origine: Italia/Ungheria; produzione: Budapest Filmstúdió, Mokép; durata: 95′

«Esempio di fusione tra cinema e musica sinfonica, il film non si limita ad illustrare l’opera di C.W. Gluck, ma ne dà un’interpretazione autonoma e originale, esaltando la plasticità a discapito della verosimiglianza. È un percorso che salda bene l’astrattezza del brano musicale fino a superare l’oggettivo realismo del fotogramma» (Umberto Rossi).

ore 19.00

Római szonáta (Sonatina romana, 1996)

Regia: István Gaál; soggetto e sceneggiatura: I. Gaál; operatore: Lajos Sasvári; montaggio: I. Gaál; montaggio musicale: Katalin Sándor; origine: Ungheria/Italia; produzione: Studiofilm Kft, Magyar Televízió, Csc; durata: 54′

Dall’alba al tramonto, la vita di una grande città profondamente amata dal regista.

«Il regista, che ha più volte spiegato di essere contrario a un cinema letterario e all’attitudine letteraria del film, con questa sua opera arriva più vicino a un ideale di purezza assoluta, così come è stato concepito diverse volte durante la storia del cinema: rappresentare il mondo senza l’ipoteca di tutte le eredità letterarie e teatrali, ma esclusivamente con la ricchezza delle immagini, della composizione, del montaggio, del ritmo e della forma. Gaál torna così ai film di città dell’avanguardia cinematografica» (Paolo Vecchi).

ore 20.00

Étude (1961)

Regia: István Gaál; soggetto e sceneggiatura: I. Gaál; fotografia: Anton Van Munster; musica: Vittorio Gelmetti; montaggio: I. Gaál; origine: Italia; produzione: Centro Sperimentale di Cinematografia; durata: 7′

Un giovane si addormenta mentre sta studiando nella notte. Poi si alza, va alla finestra, guarda la città che si sta svegliando e fischia le prime cadenze della sinfonia n. 9 in Mi minore op. 95 Dal nuovo mondo di Antonín Dvořák. Saggio di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.

«Questa breve meditazione collocata in un contesto urbano parla di nuovo del rapporto tra uomo e ambiente. In parallelo col piccolo mondo intimo, introverso e meditativo, vengono sottolineate le tre inquadrature sulla città, in cui ci troviamo di fronte a una rigida geometria, allo spettacolo dello spazio definito dai tetti e dalla via che attraversa le file di alti palazzi» (Paolo Vecchi).

ore 20.30

Incontro con Paolo Vecchi

ore 21.30

Sodrásban (Corrente, 1963)

Regia: István Gaál; soggetto e sceneggiatura: I. Gaál, con la collaborazione di Imre Gyöngyössy; fotografia: Sándor Sára; musica: Antonio Vivaldi, András Szöllösy, János Sándor, Girolamo Frescobaldi; montaggio: I. Gaál; interpreti: Andrea Drahota, Sándor Csikós, András Kozák, Marianne Moór, Istvánné Zsipi, Tibor Orbán; origine: Ungheria; produzione: Hunnia Filmstúdió; durata: 81′

Alcuni ragazzi e ragazze in vacanza si incontrano al fiume. Fanno il bagno, di divertono, scherzano, flirtano. Uno studente più anziano propone una prova di coraggio: immergersi e portare dal fondo del fiume un pugno di fango. Ma improvvisamente uno di loro, Gabi, scompare nella corrente. Lo cercano, lo chiamano, avvertono la polizia, ma nulla. È forse affogato. La polizia li sottopone ad interrogatorio, ma a parte qualche indizio non nasce alcun sospetto. Li prende una disperazione che fa affiorare tutte le loro insicurezze, i loro rapporti vengono messi in crisi, le coppie si separano. Infine viene ritrovato il corpo dell’amico annegato, forse per un malore. I ragazzi tornano in città, ai loro studi, ma la vicenda li ha cambiati, con l’esperienza sono cresciuti. È una metafora sulla complessità e la durezza di una società oppressiva e mendace. Lungometraggio d’esordio di Gaál, premiato come miglior regia al Festival del cinema ungherese. Premiata anche l’intensa fotografia in bianco e nero di Sándor Sára.

«Il regista restringe il processo del passaggio dall’adolescenza alla maturità a una situazione esistenziale di base: i membri della giovane compagnia entrano nella “vita” con la coscienza della responsabilità della morte tragica di un loro amico. […] La responsabilità per l’attenzione o la disattenzione si pone in rapporto con una persona conosciuta, provocando nei giovani la necessità di autoanalisi […]. Gaál coinvolge anche gli spettatori in questo processo che non concede alibi, facendo leva sui mezzi più raffinati di un cinema modernissimo» (Paolo Vecchi).

lunedì 29

chiuso

martedì 30

ore 17.00

Tamás és Juli (Tamas e Juli, 1997)

Regia: Ildikó Enyedi; soggetto e sceneggiatura: I. Enyedi; fotografia: Tamás Sas; musica: Laszlo Melis; montaggio: Mária Rigó; interpreti: Márta Angyal, György Barkó, Ferenc Elek, Dávid Jánosi; origine: Ungheria; produzione: La Sepr Arte, Haute t Court, FMS Studio, Eurofilm Studio; durata: 62′

Tamás, un giovane minatore, e Juli, una maestra d’asilo, si conoscono nell’estate del 1999. Entrambi troppo orgogliosi per dichiararsi il loro amore, non riescono ad andare oltre una tenera amicizia. Il 31 dicembre Juli decide di scrivere a Tamás: gli dà appuntamento alle 10 di sera al Bar di Rocher. Tamás legge e rilegge questa lettera d’amore mentre il caposquadra della miniera sta annunciando quali minatori dovranno essere di turno quella sera. Il suo nome è sulla lista. Juli dovrà aspettare, e Tamás non ha modo di avvertirla…

«Cronaca di una tragedia annunciata. Un velo di morte si affaccia sin dall’inizio negli occhi di Tamás, ancora prima che gli venga annunciata la cattiva notizia del lavoro in miniera nella notte di Capodanno. Un Tempo soggettivo, quello dei giovani protagonisti, si spezza proprio quando un Tempo cronologicamente epocale si presenta: il passaggio dal XX al XXI secolo. […] Già in Il mio XX secolo (Camera d’Or a Cannes nel 1989) la regista ungherese Ildikó Enyedi descriveva il passaggio dal secolo scorso a questo. Tamás és Juli mantiene una sua coerenza visiva nostalgicamente “passéiste” in un’ambientazione temporale precisamente indicata: gli ultimi mesi del 1999. La Enyedi lascia camminare i propri personaggi con la morte addosso regalandoci così due eroi tragici che oltrepassano le frontiere del tempo. La regista sa accumulare i dettagli soggettivi, indaga con precisione nell’irrazionale mutevolezza degli stati d’animo. L’opera non riesce però ad attenuare forzature simboliche – l’atto sessuale tra i due cani – e vuole rendere a tutti i costi esemplare una vicenda forse sin troppo normale, inquinando così la sincerità e la spontaneità della nascita e della crescita del rapporto tra i due ragazzi con una buona dose di collaudato manierismo» (Simone Emiliani).

ore 19.00

Woyzeck (1994)

Regia: János Szász; soggetto: dal dramma omonimo di Georg Büchner; sceneggiatura: J. Szász; fotografia: Tibor Máthé; musica: Henry Purcell; montaggio: Anna Kornis; interpreti: Lajos Kovács, Diana Vacaru, Alekszer Porohovscsikov, Péter Haumann; origine: Ungheria; produzione: Magic Media; durata: 93′

János Szász riesuma il dramma di Georg Büchner ambientandolo nell’Ungheria di oggi eppure mantenendone le caratteristiche di cupa astrazione: il disturbato protagonista è guardiano dello scambio n. 425 e abita l’annessa baracca, l’inquieta Maria subisce il richiamo dei sensi durante una festa di dropout, il Tamburmaggiore fa il poliziotto; ma ogni elemento del paesaggio sembra sprofondato in una dimensione atemporale, sospeso nelle nebbie esistenziali di un avvolgente bianco e nero.

«Riflessione eterna ed attuale Woyzeck s’interroga su temi senza tempo oppure profondamente legati ad un hic et nunc, costituendo un repertorio, ambiguo ed illuminante quanto sanno esserlo le opere d’arte sulla paura, lo smarrimento, la perdita del centro, homo hungaricus del dopo ’89» (Paolo Vecchi).

ore 20.30

Incontro con János Szász

ore 21.00

Witman fiùk (I fratelli Witman, 1997)

Regia: János Szász; soggetto: dal racconto di Géza Csáth; sceneggiatura: J.Szász, András Szeredás; fotografia: Tibor Máthé; musica: Miklosné Miklos; montaggio: Anna Kornis; interpreti: Maia Morgenstern, Alpár Fogarasi, Szabolcs Gergely, Lajos Kovács; origine: Polonia/Francia/Ungheria; produzione: 47ème Parallèle, Budapest Filmstúdió, MTM Kommunikáció, Ma film; Music Television, Studio Filmowe Zebra; durata: 99′

In questo dramma incalzante di alienazione e solitudine, i fratelli Witman, trascurati dalla madre, sono spaventati dalla vita. Cercano un calore umano e il senso della loro vita, ma lo cercano nel posto sbagliato – incluso il locale bordello. Potrebbero sembrare innocenti, almeno al primo sguardo, ma in realtà sono destinati a una morte ignobile. Ambientato in un piccolo villaggio appena prima dello scoppio della prima guerra mondiale, questo racconto di gioventù ribelle è diretto in modo perfetto da Jánosz Szász, con la squisita fotografia, giustamente premiata, di Tibor Máthé. I fratelli witman è un film shoccante e provocatorio, ma che fa pensare.

«La raffinatissima fotografia del Tibor Máthé tende così a dipingere con partecipata distanza un ambiente di provincia, con i suoi scorci nevosi, le bettole grevi di fumo, i campanili a cipolla e i cimiteri ben curati. Anche le esistenze piccolo borghesi che in esso si dipanano vengono inquadrate in una sorta di geometria pittoricamente fascinosa anche laddove si evidenzia il vuoto dei sentimenti, o la loro perversione nella ricerca delle atrocità più gratuite. E se la strada della cittadina viene ad un certo momento attraversata da un gruppo di soldati in marcia, Szász avverte la necessità di dare una prospettiva storica più concreta all’orrore che traspare sotto al superficie di apparenze ordinate, datando i “giochi proibiti” dei ragazzi Wittman al marzo 1914, la vigilia di una tragedia di ben altra portata, ben altrimenti raccapricciante» (Paolo Vecchi).

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