X FILES Voglio Crederci
Di Chris Carter. Si consiglia di leggere l’articolo dopo la visione del film – ” [..] I temi della serie sono ancora oggi d’attualità, dopo l’ 11 settembre abbiamo dato tutta la nostra fiducia nel governo per proteggerci. Questa fiducia è stata tradita. Trovo che ci siano ancora più ragioni di prima per dubitare dei nostri dirigenti”
Chris Carter[1]
Voglio Crederci, ‘I want to believe’ come troneggiava la scritta nel mitico poster appeso sul muro dell’ufficio seminterrato di Fox Mulder, o come lo stesso Fox rivelava a fine episodio della primissima stagione intitolato ‘Conduit’ scritto da Alex Gansa e Howard Gordon, rispondendo ad una domanda fatta dallo psichiatra che lo aveva in cura molti anni prima, riguardo i ricordi sulla ormai mitica notte della scomparsa della sorella dell’agente.
‘ Crede che le faranno del male ?’
‘Non lo so, una voce interna mi rassicura e mi dice che non le sarà fatto alcun male’
‘ E lei ci crede?’ …
“Voglio crederci”
Risponderà Mulder, lo possiamo sentire come un eco di un lontano passato, solo dalla registrazione di vecchi nastri che Scully riesuma casualmente, mentre sorprendiamo, nell’ultima shoccante inquadratura dell’episodio prima del nero di chiusura, Fox a piangere e pregare in chiesa davanti ad un crocifisso.
La Fede, nelle sue accezioni più varie è sempre stata elemento catalizzatore di X-files e Humus profondo dell’umanesimo Carteriano dei due ‘prometei post moderni’, nel crocifisso che Scully porta insistemente al collo pur non dichiarandosi credente, nel modo e nei comportamenti di Fox Mulder, vero credente in un mondo nel migliore dei modi perso in sciocchi pragmatismi e vanamente sicuro di sé, quando nel peggiore dei casi non complice e colpevole di omissione di verità.
Carter e Frank Spotniz creatori della sceneggiatura e del soggetto di questa seconda pellicola tratta dalla serie più cult degli anni ‘90, decidono di inabissarsi in questo cuore pulsante, lasciando da parte la “mitologia pregressa” della serie, non parlando di alieni o di uomini in nero, né della congiura del silenzio, ma addentrandosi nel ventre molle delle nostre paranoie attuali che sono mutate come un virus alieno.
Subito dopo l’11 settembre, il New York Times piuttosto frettolosamente e, forse, ironicamente, pubblicò le cose “out” dopo quella fatidica data, ebbene, X Files, dopo tutto quello che disse e rappresentò negli anni ’90, si ritrovò mestamente tra quelle.
Un po’ pochino e forse ingiusto, per la serie che cambiò i confini del brivido e della paranoia in televisione, nel format, nella percezione, nella cinematograficità televisiva e nella sostanza solo come Twin Peaks di David Lynch e Mark Frost fece prima.
Forse in risposta a questo cieco cestinaggio, Carter e Spotniz non fanno un vero e proprio continuo di ‘X Files Fight The Future’, film del 1998, ma rilanciano le carte potenzialmente espressive del serial costruendo un’opera più complessa, sfacettata e sicuramente più ricercata nei contenuti e soprattutto nella forma.
A detta dei creatori, come forma, si avvicina più ad una puntata della serie intitolata ‘Home’ scritta da James Wong, più volte censurata per i forti contenuti e ‘Squeeze’ e ‘Tooms’ entrambi della prima stagione, entrambi scritti da Glen Morgan e James Wong.
Sarebbe stato, forse, obsoleto continuare a sviluppare una congiura del silenzio dopo i fatti dell’11 settembre che rischiano di gran lunga già di loro di superare la finzione, per questo motivo la sceneggiatura si addentra nel ventre molle di cellule impazzite nel grandissimo (nel senso di spazi) paese che sono gli Stati Uniti.
Una banda (famiglia) di trafficanti di organi messi in proprio che rivogliono dare “la salute” al famigliare dal corpo devastato (e violentato da piccolo proprio da padre Joe, il prete pedofilo in preda a visioni mistiche e rivelatrici, devastato dai sensi di colpa e rimorsi, uno dei personaggi cardine del film), rapendo e facendo a pezzi ragazze e ragazzi presi per la strada.
La nuova paranoia del millennio: le malattie incurabili, le anomalie genetiche, le malattie rare, tutte nuove pesti del secolo, ma soprattutto, l’uso aberrante della scienza eretto a sistema etico di vita.
La fede invece è il trait d’union tra tutti i personaggi, per Mulder, si tratta della fede incrollabile di una verità incarnata nel rapimento della sorella di molti anni prima, per Scully, di una fede legata alla scienza ed alle cure mediche che, forse, potranno contro il parere di tutto e tutti salvare la vita, al prezzo di molto dolore, ad un bambino molto caro alla dottoressa, per padre Joe si tratta della fede in Cristo, per la famiglia/ ladri di organi si tratta nella cieca fede della scienza, quella scienza che permette di dissezionare perfettamente pezzi di corpi umani e riunirli insieme, senza etica.
In quest’ultima fede nella scienza, si nota una pericolosa vicinanza a quella di Scully, fedi entrambe, che se non controllate dall’animo e da un cuore, possono diventare aberrazioni molto facilmente.
Le grandi distese innevate della Virginia (luogo eletto principe della serie fino alla 5° stagione) creano una scenografia mozzafiato che non si diluisce come acqua piovana per tutto il film, anzi soffoca e permea i personaggi sino a farli diventare puntini semoventi alla ricerca di chissà cosa nell’immensità e della immanemza della natura.
La fotografia di Bill Roe gioca con i controluce quasi oltremondani della neve che placida plana rendendo i quadri d’insieme e le inquadrature delle vere e proprie opere di luci cangianti in movimento, un vero e proprio territorio “virginale” dove poter scoprire (davvero) la verità anche solo per un istante.
Fosse anche una x insanguinata sulla neve.
Corpi in movimento lento e ritmico che sbattono sulla neve, tutti agenti dell’Fbi, tutti in fila in mezzo al bianco pallido e latteo della neve come in un quadro di Caspar David Friedrich.
Il montaggio di Richard A. Harris è davvero cinematografico, nella scena iniziale del ritrovamento del braccio amputato tra i ghiacci, riescie a creare tensione con le inquadrature alternate tra le immagini che scorrono del ritrovamento, e gli avvenimenti accaduti sicuramente qualche ora prima alla ragazza rapita, con notevoli ellissi e simmetrie visive di impatto e comunanza percettivo/ scenica del tutto, tra passato e presente.
Questo X Files è una coraggiosa mutazione di quello che era sapientemente prima, la morte e il terrore per malattie incurabili era il punto focale di episodi come ‘Memento Mori’ per esempio, la fede era già stata trattata sapientemente nel finale e nella chiusura definitiva (ma senza risposte certe) del commovente caso di Samantha Mulder, sorella di Fox, nell’episodio capolavoro ‘Closure’.
Un serial con una anima cangiante e perfettamente al suo agio in quel media televisivo che ne ha amplificato le caratteristiche peculiari, non a caso il film del 1998, pur con tutte le ottime intenzioni e pur non potendolo considerare a tutti gli effetti una brutta opera, non riusciva a trovare e rendere al cinema l’ “essenza” della serie, tramutando il suo percorso dall’universale al particolare, “chiuso” in sé, dalla cospirazione planetaria, alla “deformazione” nella provincia, questo film diventa un virus patogeno, che rappresenta qualcosa di ben più generalizzato e radicato, una metafora neanche troppo coperta sulla politica estera fatta di “chiusura” di un intero paese che si barrica in casa e cerca i rimedi per conto suo per esempio (il motivo sonoro degli x-files che si sente improvvisamente ed ironicamente nella scena in cui Mulder e Scully tornano dopo sei anni negli uffici investigativi dell’Fbi, quando vedono la fotografia di George W.Bush, è tutto dire, molto è cambiato dal 2001 dalla chiusura della serie, un x-files da non aprire per il momento) .
E’ della partita anche l’inossidabile compositore Mark Snow, con i suoi corni i suoi ritmi tribali sintetizzati, crea un’atmosfera tutta sua, che anche nel finale non viene rovinata dal remix della (sua) mitica sigla iniziale, che anzi, con in sottofondo visivo dettagli di neve, di ghiaccio e acqua che scivola su superfici, ed infine l’ondeggiare immenso dell’oceano, fonte di vita primaria, terrestre ed extraterrestre, dà un suo particolare significato tutt’altro che stupido ai titoli di coda finali.
Un film sofferto che ha il coraggio di finire con speranza, una speranza che intravediamo dopo dei titoli di coda che dai ghiacci ela neve ci fa passare alla possente calma degli oceani (amati da Carter che fa il surfista) che alla fine ci sbatte in faccia, quasi ironicamente, ma con molta decisione, una barchetta con Fox e Scully, finalmente soli, che remando solcano la vastità dell’acqua, quasi scappando finalmente dalle tenebre degli X-Files e dalla verità, o almeno provandoci.
Tra il Kitch e la poesia assoluta.
Non per i vecchi appassionati intransigenti, ma per persone che amano il cinema tout court, e che hanno amato i personaggi e le atmosfere della serie, nonché quel diffuso umanesimo Carteriano che si respira in questo strano piccolo oggetto non (ben) identificato.
Davide Tarò.
[1] Benjamin Rozovas ‘X Files: C’est rouvert!’ in Premiere 378, Etè 2008. Pag 100, Hachette Filipacchi.