E VENNE IL GIORNO

Di M. Night Shyamalan

Se Signs fu un film “inessenziale” 1sulla fede nel cinema e in un Dio cinematografico demiurgo che (forse) è il regista, questo ‘The Happening’, o ‘E venne il giorno’ nell’azzeccatissimo (per una volta) titolo italiano, non lo è più ne lo può più essere, è piuttosto un ” anti-survivor movie”, dove non si può ( più) sopravvivere, dove non è più etico vivere e vedere qualcosa dopo ‘la fine’.

Se la strada formale di questa pellicola è chiara e trasudante passione verso un cinema “sociale/docu-fantastico” come il Romero sessantottino di ‘La notte dei morti viventi’ o l’Hitchcock de ‘ Gli Uccelli’, rivelandosi uno dei più interessanti prodromi ed evoluzioni di questo modo di rappresentare l’audio visivo, la sua essenza, la sua più intima essenza è di ben più difficile catalogazione.

Ma bisogna ben aver chiaro una cosa su Shyamalan, prima.

Se il divorzio con la Buena Vista, ma soprattutto con la sua confidente/produttrice, portò a Shyamalan dopo capolavori assoluti “inosabili” ed “Inauditi” di lucidità di visione universale come il già citato ‘Signs’ e ‘The Village’, un film volutamente inincasellabile come ‘Lady In the Water’ un dono alle sue figlie, una fiaba, simbolo di una fede assoluta verso un “registaDio”, che se non controllata con il cuore e con una fortissima ed invidiabile volontà, può divenire (forse) intransigente fondamentalismo.

In ‘Lady In the water’ è l’atteggiamento che cambiava sottilmente in confronto alla sua passata tetralogia, una sorta di non ben identificata ma radicata “privatizzazione” dell’universo del regista, il film era fatto per le sue bambine, la sua famiglia, e per piacere solo ed esclusivamente a loro, gli altri, se non erano d’accordo, potevano anche scomparire.

Non a caso, la storia si svolgeva in uno stabile con una grande piscina che fungeva da teatro degli eventi, lì iniziavano gli eventi, e lì finivano, senza “aprirsi” a qualcosa di universale, tra dannazione e redenzione.

Lì, il personaggio dello scrittore, (interpretato dallo stesso Shyamalan) scopriva che nel futuro sarebbe morto, ma che prima dello scoccare del suo ineluttabile destino, avrebbe scritto un libro che avrebbe “cambiato” il mondo.

Shyamalan si considera, e forse in effetti è, un demiurgo con un suo particolare sistema di convinzioni.

Un demiurgo che può essere fonte di gioia o fonte di sofferenza, lui dal canto suo non ha mai fatto i film solo per “Piacere”, ma per far provare “qualcosa” alla fine di ogni pellicola, non ha mai messo “cinicità” voluta, una sua forte convinzione in effetti è l’andamento proporzionale tra la quantità della prima nelle sue pellicole, ed il successo relativo tra il pubblico.

Alcuni critici sostengono che quello che chiama “cinicità” il giovane regista indoamericano, sia in realtà il rispettto di confini strutturati del genere2.

E in questo ‘E venne il giorno’ vien da dare ragione ad essi, l’apertura con la sigla di testa ricorda le magnifiche orchestrazioni di Hitchcock, un James Newton Howard sopra le righe, orchestra una sottile paranoia che danza in sincrono con le foglie degli alberi, con l’erba che si muove placidamente insidiosa, e poi nubi, nubi nerissime, suono di archi spezzati, inizio della fine.

Nubi, cielo e luci curate a stretto contatto con il direttore della fotografia Tak Fujimoto, dove le luci sono un personaggio, forse quello che si guarda di più, forse quello che ci guarda di più, ammonitore, come i morti del Sesto Senso, come gli alieni/Dio di Signs, come il destino di Unbreakable, perché nel resto della pellicola

mette in scena un mondo nel quale lo spazio viene a mancare per come eccesso di spazio. Nessuno replica al nostro sguardo. Nessuno ci guarda. Cessiamo di esistere” 3.

Anche se tra i personaggi continua comunque ancora ad intercorrere un rapporto di “desiderio visivo”4, in questa ultima pellicola rappresentata dal filo “Invisibile” che li lega facendoli sentire le rispettive voci in due casolari di campagna isolati e distanti, ma in qualche modo comunicanti.

Nessuno ci guarda (più), ma non ci impedisce di vedere una giovane coppia in crisi che può ancora riscoprire di amarsi e di avere fede verso il mondo, di quello che ne rimane, uscendo dai rispettivi casolari in quarantena, mentre soffia il vento mortifero, mentre la natura, Dio, osserva, forse indifferente, si ricongiungono, con una bambina rimasta orfana, forse, l’unico modo di continuare a vedere (esistere) è lasciarsi andare, avendo fede, aprirsi al mondo, anche se ormai è troppo tardi.

Rimarrà negli annali del cinema, la pioggia di uomini che leggiadramente, lentamente, ritmicamente, in una sinfonia di suicidi, si lascia cadere nel vuoto, corpi animati che si avvicinano al nostro sguardo orripilato, grottescamente divertito, azzerato ed annichilito perché spettatore inerme dello “spettacolo più grande”, la morte volontaria, l’estinzione accondiscendente.

Il grande cinema è anche questo.

A differenza dei soliti e memorabili ‘twisted end’ , al quale ci ha da sempre abituati, una sorta di “Shyamalan’s touch”, non solo una fredda esigenza commerciale, ma un dispiegamento e disvelamento di qualcosa che era già in nuce, un ribaltamento del senso e del sentire comune, un disvelamento antropologico prima che dell’anima, in questo film sembra non esserci, o meglio, sembra non esserci nel modo a cui ci ha abituati il regista, e qui sta la “pecca” più grande della pellicola.

Un cerchio non finito, tutt’altro, ci vuole fede, ma non è detto che serva, tutto sembra ricominciare, forse più forte e potente di prima, la fede bisogna guadagnarsela, è sacrificio, ma soprattutto è laica, nulla è scontato.

La direzione degli attori negli ultimi due film sembra cambiata, prima c’era una sottile preferenza, di sguardi attoniti, di un andamento quasi ipnotico, ipnotizzato, negli ultimi due, soprattutto in attori quali Jhon Leguiziamo, Zooey Deschanel (immensamente meno brava del primo) e soprattutto Paul Giamatti sembra esserci un andamento troppo consapevole, troppo sopra le righe, che in qualche modo sovrasta la storia e le emozioni che si vorrebbero trasmettere, Lo sguardo (s)perso di Bruce Willis, quegli attoniti ed finemente “Imbambolati” di Mel Gibson, e del grandissimo Joaquin Phoenix e di Bruce Dallas Howard.

Mark Walhlberg è l’unico nell’ultima pellicola che sembra continuare a tenere questo contatto con la “tradizione attoriale Shyamalaniana”.

Attoniti corpi in movimento verso una fine certa.

Davide Tarò.

1 Davide Tarò, recensione di Signs, in Effetto Notte, www.effettonotteonline.com

2 Giulia D’agnolo Vallan, Pioggia di Morti, in Ciak n°6, giugno 2008, pag. 69, Mondadori.

3a Giona. A. Zannaro, E venne il giorno recensione, in FilmTV anno 16 N°24, Editore Tiche Italia.

4 Davide Tarò, Shyamalan o Del desiderio Visivo, in M.Night Shyamalan Filmare l’ombra dell’esistenza,a cura di Andrea Fontana, Morpheo Edizioni, 2006.

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