L’enfer

L’enfer è l’ultima fatica del regista serbo, premio Oscar per “No man’ s land”, Danis Tanovic.
Un’opera ambiziosa e ben girata sotto l’aura mistica del maestro Krysztof Kieslowski.
Il grande regista polacco, infatti prima di morire nel 1996, con la collaborazione dello sceneggiatore Krysztof Piesiewicz, aveva elaborato a quattro mani la sceneggiatura di “L’enfer”, insieme a quella di “Le paradis” e “Le purgartoir” per dar vita ad un corpus unitario sulle tematiche a lui più care: vita, amore, sofferenza, morte e l’esistenza del trascendentale.

Già Tom Tykwer (“Lola corre”) aveva trasposto in pellicola il capitolo del paradiso nel dimenticabile “The Heaven” facendo incontrare, in una maniera un po’ edulcorata, Giovanni Ribisi e Cate Blanchett.
Il film del regista serbo si discosta totalmente dalle dinamiche del suo collega tedesco e pone il set a Parigi, rispettando le intenzioni di Kieslowski, che non aveva scritto la trilogia per se stesso, ma per tre giovani registi stranieri che avrebbero dovuto girare “Le paradis” in Italia e recitarlo in lingua italiana (e così è stato), “L’enfer” in Francia in lingua francese e “Le purgartoir” in Spagna in lingua spagnola analizzando, per quest’ultimo capitolo, la vita di un fotografo che muore in Kosovo (staremo a vedere).
La grande eredità che Tanovic si è trovato tra le mani era caratterizzata da una sessantina di pagine, che ha in seguito deciso di ampliare per dar vita ad un opera che fosse più vicino al suo modo di lavorare anche perchè, come ha affermato lui stesso, “non penso di essere in grado di fare film come Kieslowski, ho un modo diverso di lavorare. Molti avrebbero potuto parlare di sacrilegio nel toccare una materia così importante. Per questo l’ho fatto diverso da come l’avrebbe fatto Kieslowski”.
Come nel suo precedente film anche ora il regista serbo inserisce molte metafore e non da risposte definitive agli interrogativi del suo inferno e mentre con No man’s land si è voluto concentrare su un inferno pubblico, quello della guerra, di cui è stato lui stesso testimone in primis, ora si concentra su un inferno più intimo, quello che può scaturire dalle relazioni interpersonali, dai fraintendimenti e dai tradimenti.
L’inferno della pellicola è, quindi, quello che può far parte della nostra vita di tutti i giorni e, a chi ha chiesto a Tanovic se per lui conti di più questo tipo d’inferno o quello della guerra lui ha risposto che “l’unica verità che ho è che non esiste verità. Per realizzare che siamo in Paradiso forse dobbiamo prima passare per l’Inferno. E’ però triste che ci siano delle persone che vivono in Paradiso e non se ne rendono conto. (…) Tutto dipende da quello che io chiamo punto di rottura, da quello che sei disposto a sopportare, dalla tua soglia di tolleranza”

Non mancano gli omaggi al grande autore polacco, come la scena dell’insetto, in questo caso un’ape, che cerca di uscire dal bicchiere in cui è intrappolato proprio come accadeva nel secondo capitolo del Decalogo,“ Non avrai altro Dio all’infuori di Me”, che secondo Tanovic “può essere interpretato sia in maniera positiva che negativa, dipende da chi guarda. Preferisco che la metafora esca e non impormi (…) metto in scena le domande, ma non è detto che avrò mai le risposte (…) Io considero lo spettatore un adulto e quindi non gli impongo risposte preconfezionate. Cerco di metterlo in uno stato emotivo che può condurlo a trovare la strada per arrivare alle sue risposte”. Un altro omaggio-citazione si può ritrovare nell’enfasi scenografica costituita da determinate tonalità di colore attraverso l’utilizzo di filtri applicati alla macchina da presa per dare un carattere e una personalità anche cromatica ai tre personaggi protagonisti (come nella trilogia dedicata alla Bandiera Francese o nel Decalogo). Si ritrova, quindi, il rosso della passione ed irrequietezza per il personaggio di Sophie (Emmanuelle Béart), il verde della sicurezza per la giovane Anne (Marie Gillain) e il blu della pacatezza per Celine (Karin Viard).
La vicenda di L’enfer vede l’intrecciarsi di quattro storie parallele in cui compare un cast d’eccezione, in prevalenza femminile e tutto francese costituito da Emmanuelle Béart, Karin Viard, Marie Gillain, Carol Bouquet, Jean Rochefort e Guillame Canet.
I piani temporali si accavallano seguendo una tecnica di parallelismi e sovrapposizioni molto elegante. Inizialmente siamo nella Parigi degli anni ’80 e vediamo un uomo che, lasciato dalla moglie, esce di prigione. Non sappiamo molto di più di lui anche perché si passa subito alla Parigi dei giorni nostri.

Qui incontriamo Sophie, Celine e Anne, sorelle che, ormai adulte, si sono perse di vista vivendo ciascuna la propria vita. Sono però accomunate da una sorta di destino avverso che, come nella spirale della locandina, sembra avvolgerle tutte. Una metafora, questa, suggerita al regista dal “movimento rotatorio delle scale, come la storia che gira intorno fino all’inferno”.
Sophie è, infatti, in crisi col marito Pierre (Jacques Gamblin), un fotografo con cui ha avuto due figli e “malgrado la sua bellezza e il successo sociale, è una donna persa, che soffre perennemente”, come ha dichiarato il regista serbo. Anne, la più giovane delle tre, studentessa di architettura alla Sorbonne di Parigi, ha una relazione con Frederic (Jacques Perrin), uno dei sui professori ed “è un po’ l’emblema delle donne di oggi, in lotta contro il mondo, una donna che va sempre fino in fondo per esaudire i proprio desideri, senza preoccuparsi troppo delle possibili conseguenze delle sue azioni”. Celine, invece, è sola ed “è un po’ il Gesù Cristo di casa, colei che è destinata ad addossarsi il dolore di tutti cercando di salvare il salvabile o quel che ne resta” ed è l’unica ad occuparsi della madre (Carole Bouquet), “una donna dura e fredda” che non parla più, vive in una casa per anziani che tanto assomiglia alla reggia di Versailles e pare voler solo mangiare cioccolata al latte.

Ognuno di questi personaggi è portavoce di un proprio messaggio e vive in “una società che ha perduto la fede, in un mondo senza Dio”, sempre riprendendo Tanovic, ha una propria verità ed in qualche modo dovrà affrontare il fantasma di un passato finora oscuro.
“Con questo film cerco di parlare in maniera semplice di cose complicate. I miei film non sono pessimisti, né negativi, ma mostrano temi difficili che a volte possono sembrare duri. Adoro Kieslowski perché si è sempre definito un artigiano del cinema. Ed io non sono un artista, non do risposte. Mi basta porre delle domande per lasciare poi a tutti noi il compito di cercare le risposte”.

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