RITORNO A COLD MOUNTAIN
di Anthony Minghella
con Nicole Kidman,Jude Law,Renèe Zellweger,Natalie Portman
Minghella ci mostra con efficacia di tecnica e occhio impietoso come la crudeltà efferata della parola guerra s’imprime nel fango scuro di un sangue che tralascia le epoche, bagnandosi di una contemporaneità che si avverte dolorosa.
E forse conquistati da un tale esordio non riusciamo a non appassionarci a questo viaggio, durante il quale cade un certo malevolo scetticismo iniziale dinnanzi a panorami naturali ed umani che come un quadro vivido di storia e palpitante di ritratti si parano ai nostri occhi.
Camminiamo accanto a Inman(J.Law), attraverso un percorso intricato e selvaggio minato dagli eventi, per valichi e pendii che non ricordavamo così freddi , così tortuosi e poco battuti da sembrare tanto ostili .
Rimaniamo al di qua della staccionata ad osservarla, mentre quel che resta della sua casa cade in rovina e la candida Ada(N. Kidman) non si oppone ma continua ad abitarla, esile e graziosa come uno scoiattolo, il cui albero però sta morendo.
Sorridiamo, sollevati oltre che divertiti, quando la silvana Zellwerg spunta come una marmotta e inizia a rovistare affaccendata intorno ad una vita non andata troppo bene.
E quando il peso del viaggio comincia a farsi sentire, il nostro desiderio di guardar l’orologio viene distolto da una sagoma bruna che ci attende all’interno di una piccola baita, è la figura di una giovane madre col suo bambino in braccio quella che si staglia accanto al fuoco, poi dalla penombra esce la lucentezza del volto di Natalie Portman, goccia d’ambra nella già preziosa luccicanza del cast.
Cold Mountain è l’enorme affresco di un mondo che affronta il cambiamento dell’uomo nel conflitto indistinto tra natura ostile e barbarie civile, il cui esito appare più che mai incerto.
Minghella assembla tassello per tassello un mosaico in cui il ritorno, la redenzione dalla guerra e la perdita costituiscono le dominanti, temi a lui cari già trattati con la destrezza che si confà ad essi nel pluripremiato Paziente Inglese, di cui a tratti udiamo come gli echi, ma stavolta la sintassi seguita è quella dell’omonimo libro, omonimamente pluripremiato.
Lo scazzo ci coglie,quasi impreparati, sul finale, quando una sospensione troppo marcata prende la forma dell’inconcludenza rovinanado i bei ricami di tanta aspettativa.
Ma è il pasaggio conclusivo a rincalare la dose, logorandoci ogni enfasi creata (e non solo quella) con una cattiva gestione di empatie, impossibili da frenare e, anche se costretti, dirigere in toto sulla prematura Ada, quando è stato Inman per tutto il tempo il nostro unico compagno di viaggio.
E così il film si spegne senza troppi riflessi, prendendo distanza dal trasporto che ci aveva fatto procedere per le 3000 miglia che ci separavano da casa, peccato.
Indigesta, visto che siam in aria di sfoghi, anche la presenza dell’aiuto sceriffo diabolicamente albino e acrobatico: già produceva stonature in Posse che però, avendo il sole a mezzogiorno, appariva scenograficheggiante, qui totalmente parodistico e privo di un vero perchè.
Messo lì a far figo, oserei dire.
Così nel paese delle grandi pianure e dai deretani blindati, la pellicola riscuote successi ma anche critiche.
Accusata di deficere di negri e di schiavi e,naturalmente, di essere troppo pacifista, finisce per capitolare come il grande escluso tra le vette degli oscar.
Noi ,pertanto, dopo il lungo vagabondaggio per foreste, traiamo un balsamico respiro di sollievo.