L’Ultimo Samurai

Tit or. (The Last Samurai), 2003
Regia: Edward Zwick
Attori: Tom Cruise, Ken Watanabe, Masao Harada, Hiroyuki Sanada, Shichinosuke Nakamura
Sceneggiatura: Marshall Herskovitz, John Logan, Edward Zwick
Soggetto: John Logan
Montaggio: Steven Rosenblum
Fotografia: John Toll
Costumi: Ngila Dickson
Scenografia: Lilly Kilvert
Produzione: Cruise – Wagner

Ammetto subito di essere entrato in sala con un po’ di pregiudizi per diverse questioni: la prima è la passione, per il mondo dei samurai, che mi porto dietro da più di dieci anni e la seconda è che non ho mai amato più di tanto le interpretazioni di Tom Cruise.
Invece…Tom Cruise ha dato una buona interpretazione e si vede la vera passione che l’ha guidato in questo film (pur esagerando con l’espressione crucciata). Ammetto che l’aria che si respira nelle immagini è piena di trasporto e la capacità che Hollywood sa mettere nei progetti che porta avanti è funzionale al fine del racconto della storia, ma questo per una questione di mezzi (e produzioni esecutive).

La storia narra del capitano Algren (un uomo quasi finito) dell’esercito degli Stati Uniti e del suo arrivo in Giappone come consulente, per l’uso delle armi da fuoco, alla corte dell’imperatore. Viene rapito da Katsumoto (interpretato da Watanabe), l’uomo che guida la rivolta dei samurai dopo la legge che vieta di portare spade e capigliature tipiche, e in contatto con una civiltà diversa e piena di fascino, portandolo ad affrontare la vita in modo diverso.

A parte che la trasformazione avviene in pochi mesi in cui a Cruise non crescono i capelli e che la voce doppiata di Katsumoto sembra quella automatica del servizi info via telefono, ma questi sono dettagli. Il film è vittima di troppe lungaggini e, nonostante la passione di Cruise, Watanabe gli ruba completamente la scena (apparendo ai miei occhi con una figura imponente). Certo, le scene dell’insegnate di combattimento (grandissimo) sono piene di poesia e tutta la parte ambientata nel villaggio sono belle. Il film è però più un western che non un film di samurai e si fa guardare nonostante tutte le contraddizione che vengono a galla: perché Algren sposa la dottrina dei samurai ma non fino in fondo al film (seppuku?)? Perché non far finire il film sul campo di battaglia e aggiungere altri due finali smaccatamente hollywoodiani? Perché aggiungere (sempre) una storia d’amore? Forse per compiacere il pubblico che magari non conosce neanche le tradizioni (perdute a sentire Katsumoto) di un paese così lontano o perché, citando il film, gli statunitensi sono “commercianti dozzinali”… beh, in effetti il film funziona se non confrontato con film come Gohatto o Zatoichi (per non andare troppo indietro nel tempo nella filmografia giapponese), ma rimane il rammarico perché sarebbe bastato qualche taglio in più (una dozzina di scene e circa 25’) per fare un buon film.

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