RESIDENT EVIL

Una della multinazionali più potenti al mondo, l’Umbrella, finge di dedicarsi esclusivamente alla produzione di software e strumenti legati alla medicina, in realtà al suo interno una squadra di scienziati conduce esperimenti legati alla realizzazione di terribili armi batteriologiche e alla manipolazione genetica. Quando all’interno di un laboratorio qualcuno infrange una fiala contenente un virus letale sciaguratamente contagioso, il computer che controlla l’intera struttura spranga ogni via di fuga e sceglie di sterminare tutte le persone presenti al proprio interno per evitare che il contagio si diffonda. Soltanto una squadra di agenti scelti riuscirà a penetrare nella struttura blindata dell’Umbrella ma, oltre a vedersela con il diabolico computer, dovrà fare i conti con l’orda di cadaveri che il virus ha nel frattempo provveduto a resuscitare e mutare in zombi, cani compresi.

Tratto da un videogame di enorme successo popolare, diretto da un regista-sceneggiatore che già in passato aveva curato la trasposizione cinematografica di un gioco celeberrimo (“Mortal Kombat”), questo “Resident Evil” mantiene quello che promette e non concede neanche un briciolo in più di quello che uno si aspetta.

Violento ma nei limiti di un prodotto concepito fondamentalmente per teenager malati di Playstation, splatter ma senza esagerare con il sangue, gore ma nei limiti della decenza, ritmatissimo nella regia e nel montaggio, pompato e hard nella colonna sonora (di Marco Beltrami e Marilyn Manson), curato e trendy sotto l’aspetto visivo (le scenografie sono discretamente suggestive).

Un perfetto prodotto usa e getta, più curato e divertente di altre operazioni analoghe (vedi “Lara Croft”), ma che propina emozioni di plastica ed è malato di citazionismo (oltre ovviamente a Romero, del cui genio e della cui radicalità non esiste la minima traccia, c’è il computer che impazzisce e tiene in scacco i sopravvissuti, come Hal 9000, parlandone con rispetto, c’è una morte presa pari pari da “Cube”, c’è molto della saga di “Alien” e chi più ne ha più ne metta).

La Jovovich si candida a diventare una nuova Ripley, ma deve mangiarne di pane per diventare ascetica e assurgere a statura mitica come la mai dimenticata Sigourney, mentre l’altra eroina, Michelle Rodriguez, mantiene costantemente e in qualsiasi situazione uno sguardo così torvo e minaccioso da far pensare che sia stata colta da paresi.

Se uno pensa che il progetto originale vedeva coinvolto dietro la macchina da presa il papà dei morti viventi (aveva anche scritto una sceneggiatura, puntualmente rifiutata), viene un po’ da piangere, se si contestualizza l’opera all’attuale situazione del cinema horror, non c’è da lamentarsi poi troppo.

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