PINOCCHIO
di Roberto Benigni
Tanta, troppa era l’attesa per questo nuovo film di Benigni, dopo il successone di “La vita è bella”. Ed era quasi inevitabile rimanere un po’ delusi. Ma questo “Pinocchio” lascia l’amaro in bocca per motivi più complessi, e più gravi. Quando un autore di provato talento e forte personalità mette mano a una storia arcinota, ci si aspetta come minimo una rilettura originale, innovativa, personale… Invece in questo film tutto è incredibilmente ovvio, convenzionale. Benigni, insomma, non stupisce, non entra in simbiosi con lo storico personaggio di Collodi, non fa il “suo” Pinocchio. Tutto è come ce lo siamo sempre immaginato, come ce l’hanno sempre raccontato: Geppetto (sbiadito e un po’ macchiettistico, in verità), Mangiafuoco (inconsistente), il Gatto e la Volpe (bravi i Fichi d’India a renderne l’ambiguità un po’ tetra), il Grillo Parlante (bravo Barra, ma ha poco da fare), la Fata Turchina (una Nicoletta Braschi come sempre molto dolce). Il Lucignolo di Kim Rossi Stuart è il personaggio più riuscito, e i momenti migliori sono i suoi duetti con Pinocchio: la carica anarchica che possedeva già nel libro viene sottolineata e dà un po’ di “sangue” a un film mai particolarmente entusiasmante.
Poi c’è lui, Benigni, che adotta per tutto il film una specie di irritante voce in falsetto e sacrifica la sua grande fisicità in favore di una logorrea a volte noiosa (forse sarebbe stato più adatto il suo solito personaggio stralunato e infantile, il Giuditta del “Piccolo Diavolo”). Il film è fedele al libro anche nei passaggi più sgradevoli e cupi (la martellata al Grillo, l’impiccagione di Pinocchio, la morte di Lucignolo), ma si prende una significativa libertà sul finale: è, questo, l’unico momento veramente forte del film, l’unico tocco personale dell’autore, l’unico colpo d’ala di un’opera che sembra continuamente sul punto di decollare ma non ce la fa mai.
I pregi tecnici sono molti, com’era prevedibile: molto bella la fotografia di Spinotti, bellissime le scenografie del grande e compianto Danilo Donati (cui il film è dedicato), molto buoni anche gli effetti speciali (soprattutto nella scena iniziale del tronco e in quella dell’arrivo del Grillo al Paese dei Balocchi). La musica di Piovani non mi ha del tutto convinto (penso che abbia fatto molto di meglio con Moretti, da “Palombella Rossa” alla “Stanza del figlio”) e poi è fastidiosa la strizzata d’occhio a Nino Rota in una scena, quella del Paese dei Balocchi, che fa di tutto per essere felliniana, con risultati dubbi.
Un bello spettacolo, in fondo, ma senz’anima, dove la commozione e la poesia sono continuamente cercate e inseguite, ma raramente toccate. I soldi sono tanti e si vedono, i momenti riusciti non mancano, sulla bravura e sull’intelligenza di Benigni (soprattutto come attore) non si discute, ma viene da pensare che sia un’occasione un po’ sprecata. Neanche si pone il confronto con “La vita è bella”, decisamente superiore per intensità e cuore.
Domenico Zàzzara dizeta79@yahoo.com