METROPOLIS
Anno: 2001
Nazione: Giappone
Durata: 100′
Regia: Rintaro
Sceneggiatura: Otomo Katsuhiro
Musiche: Honda Toshiyuki
Tratto da un fumetto del 1949 di Osamu Tezuka. La futuristica città di Metropolis è divisa in settori: il più sfavillante è destinato ai cittadini abbienti, non esistono problemi di sorta e la violenza appare bandita. Nei due settori restanti, accuratamente nascosti nel sottosuolo, vive la feccia della società. Ma qualcosa comincia a scricchiolare nel tessuto di questa società “perfetta” e sempre più spesso robot fuggiti dai loro settori costringono gli stupefatti abitanti della zona protetta ad assistere a furibonde sparatorie. Mentre nei sotterranei covano movimenti rivoluzionari che intendono sovvertire l’ordine politico-sociale, la situazione precipita quando l’investigatore Shunsaku Ban e suo nipote Kenichi cominciano ad indagare sui loschi traffici di uno scienziato pazzo, creatore di un rivoluzionario androide destinato a sedere sul trono dell’inumana megalopoli.
Se il manga di Osamu traeva qualche ispirazione dall’omonimo film di Lang (l’idea della società divisa in classi, il malcontento montante dei più umili), senza peraltro che il fumettista avesse mai visto l’opera in questione, il film di Rintaro (o Rin Tarô) saccheggia in maniera cannibalesca decenni di fantascienza cinematografica e crea un immaginario visivo che rimanda a “Blade Runner”, a “Dark City” al “Metropolis” del 1926 e perfino a certe inquadrature della Riefenstahl, mentre da un punto di vista tematico (la “creatura” in crisi di identità) siamo più dalle parti dello spielberghiano “A.I.”.
Se i dettagli sono curati in maniera certosina e impressionante, se le luci che si rifrangono sui volumi abbagliano e sorprendono, se graficamente l’opera è di indubitabile impatto, “Metropolis” non può considerarsi un film riuscito, perché soffre di un gigantismo visivo non adeguatamente sostenuto da una storia appassionante e coerente o da personaggi a tutto tondo o almeno un po’ più sviluppati psicologicamente.
Restano lontani i modelli di “Ghost in the Shell” e di “Princess Mononoke”, e la sensazione di freddezza (amplificata da un uso smodato della computer graphic) che grava sull’opera riesce a smorzare l’entusiasmo provato per la cura straordinaria degli sfondi, per una regia comunque adulta, e per una colonna sonora jazzistica molto evocativa e d’atmosfera, opera di Honda Toshiyuki.