HOLLYWOOD, VERMONT

Anno: 2000
Nazione: Francia, Stati Uniti
Regia: David Mamet
Sceneggiatura: David Mamet
Fotografia: Oliver Stapleton
CAST
Joseph Turner White Philip Seymour Hoffman
Bob Barrenger Alec Baldwin
Sindaco George Bailey Charles Durning

Cacciata dal New Hampshire a causa delle fregole sessuali dell’attore principale, una troupe cinematografica si trasferisce in un paesino del Vermont, Waterford, per girare un film tratto dalla pièce teatrale “Il vecchio mulino”, opera di uno scrittore di talento che del film dovrà anche essere sceneggiatore. Ma in realtà il vecchio mulino di Waterford si rivelerà una location inutilizzabile perché devastato anni prima da un incendio e, come se non bastasse, l’attore allupato non riuscirà a tenere a freno la sua passione per le minorenni, lo sceneggiatore smarrirà la sua macchina da scrivere, e il regista si inimicherà il sindaco della cittadina non presentandosi alla cena di gala alla quale era stato invitato.

Distribuito in Italia dopo “Heist” ma in realtà girato subito prima, l’ultimo film di Mamet è una di quelle commedie che, come si usa dire, sono scritte in punta di penna, piena di battute create già con la consapevolezza un po’ irritante che riusciranno senza dubbio irresistibili.

Ma questa satira dei cinematografari di irresistibile non ha nulla, se non la bravura di qualche attore (gli “andersoniani” Macy e Hoffman e l’enorme, anche come stazza, Charles Durning), qualche battutina sparsa qua e là, e gli eleganti titoli di testa.

Francamente ci si aspettava qualcosa di più pungente da uno dei commediografi più apprezzati d’America, invece “Hollywood, Vermont” (in originale “State and Main”) è un’opera che batte la fiacca, non è urticante come forse avrebbe dovuto essere nelle intenzioni dell’autore, e non presenta neppure personaggi particolarmente simpatici.

Per rimanere nel genere, era di certo più divertente un piccolo film del 1995 di Tom DiCillo, “Si gira a Manhattan”, anche se in tema di metacinema è impossibile non fare riferimento ad “Effetto Notte” di Truffaut. Ma lì si entra nel campo del sublime, ed è tutta un’altra storia.

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