CHE ORA E’ LAGGIU’?

Hsiao-Kang è un ragazzo che vende orologi per strada, ha appena perso il padre e deve sopportare ogni giorno le manie della madre la quale, convinta che il marito possa in ogni momento reincarnarsi in qualsiasi altra forma vivente e quindi tornare a casa da un momento all’altro, costringe il figlio a subire invadenti riti buddisti. Un giorno Hsiao-Kang incontra Shiang-Chyi, una ragazza sul punto di partire per Parigi e che vuole a tutti i costi acquistare l’orologio che Hsiao porta al polso. Il giorno dopo per i due comincerà un’odissea nella solitudine, che porterà Hsiao-Kang a sviluppare la mania di regolare le lancette di tutti gli orologi gli capitino a bersaglio sull’ora di Parigi, e Shiang-Chyi a cercare conforto tra le braccia di una sua coetanea di Hong Kong, incontrata per caso nella capitale francese.

Le dinamiche della solitudine e del vuoto esistenziale secondo la poetica di Tsai Ming-liang, uno dei più importanti registi contemporanei e uno dei più riconoscibili a livello stilistico.

Nonostante il pessimismo che pervade tutta l’opera del regista si vada lievemente attenuando (si pensi alle parentesi musicali che interrompevano “The Hole”, o ai momenti di surreali umorismo presenti in questo ultimo film), rimane la totale assenza dei movimenti di macchina, la lunghezza inusitata dei piani, l’attenzione maniacale alla composizione del quadro e alla suddivisione degli spazi, e l’afasia dei personaggi, tutti alle prese con una realtà a loro estranea, maligna, o (quel che è peggio) indifferente.

Quello che affascina nel lavoro di Tsai è proprio la durata delle inquadrature (non di rado campi vuoti o abitati da personaggi immobili), quella durata che può far spazientire molti, ma che comunica la sensazione fisica e implacabile del tempo che scorre, come se si contemplasse un’enorme clessidra che rilascia un briciolo di sabbia al minuto, mentre sullo schermo una figura si muove nello spazio compiendo gesti quotidiani, minimali, del tutto anonimi.

Cinema che regala, per chi è pronto ad accoglierli, non pochi momenti struggenti, come capita anche in “Che ora è laggiù?”, specie negli omaggi sparsi a quel capolavoro sull’insopportabile solitudine dell’infanzia che è “I Quattrocento Colpi”, omaggi che culminano con l’apparizione da brividi di Jean-Pierre Leaud, il nostro Antoine Doinel, sempre più invecchiato ma sempre attorniato da quell’aura di leggerezza sbarazzina, di grazia infantile che lo rendono di un fascino insopprimibile e (almeno lui) senza tempo.

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