CASOMAI
Due ragazzi, lui art director, lei truccatrice, scelgono una chiesa di campagna per sposarsi. Durante la cerimonia un prete sui generis li mette in guardia dai pericoli che minacciano il matrimonio, come l’abitudine, l’apatia, la mancanza di dialogo. Poi comincia a farsi raccontare dagli amici degli sposi la genesi del loro rapporto. Parte così in flashback il racconto della storia d’amore fra i due: il primo bacio, la convivenza, il primo figlio, gli screzi, la crisi vera e propria, il tradimento di lui e la decisione di separarsi ricorrendo a due avvocati spietati e malevoli. Ma niente paura, la scena finale ci riporta in chiesa e la crisi post matrimoniale faceva soltanto parte di un’ipotesi disfattista e vagamente iettatoria del bonario parroco.
Agganciatosi furbescamente al treno generazionale de “L’Ultimo bacio”, D’Alatri (autore del soggetto e della sceneggiatura, scritta a quattro mani con Anna Pavignano) coglie un inaspettato successo di pubblico (nato unicamente dal passaparola di un pubblico pronto ad identificarsi con questi modesti personaggi senza qualità) che lo ripaga dell’insuccesso del suo precedente, inguardabile “I Giardini dell’Eden”.
Anche in questo caso si parla della crisi di una coppia molto benestante e anche in questo caso l’uomo di casa fa il pubblicitario (a proposito, visto il tenore di vita dei due sorge spontanea la domanda: ma quanto si guadagna a lavorare in pubblicità?).
Ma il regista, partito con altre ambizioni e autore del sorprendente ed insolito “Senza pelle”, dirige una pellicola che condivide i difetti dell’opera mucciniana (superficialità di approccio, banalità propinate a piene mani) senza possedere in compenso l’indubbia verve del suo collega nella messa in scena, nella stesura delle sceneggiature e soprattutto nella direzione degli attori.
Un film irrimediabilmente mediocre, sciatto e tirato via che sorprende (ma fino ad un certo punto) abbia trovato così tanti estimatori.