Anything Else
Woody sta invecchiando, e si vede. Ma non c’è nessuna connotazione negativa in questa mia affermazione. Se già a trent’anni ironizzava sulla morte, sulle proprie fobie, sulla caducità delle relazioni, veleggiando verso i settanta firma un film elegante, molto parlato, ironico e nostalgico per la giovinezza ormai passata.
Che si tratti delle indiavolate commedie degli anni Sessanta e Settanta o delle pellicole raffinate e malinconiche dell’ultimo ventennio (con le dovute eccezioni e contaminazioni, ovviamente), Woody ha sempre diretto film intelligenti e personalissimi; secondo i più maligni non ha anzi fatto altro per tutta la propria carriera che girare di anno in anno lo stesso film, lievemente aggiornato in base alle ossessioni e alle paure del momento.
Io sono invece una grande fan di Woody, del suo ottimo gusto musicale, del modo unico in cui sa riprendere New York che sembra nei suoi film la città più bella e romantica del mondo, delle sue battute ancora fulminanti e lucidissime su ogni possibile argomento. Sono soprattutto una fan sfegatata della sua visione agrodolce della vita, della sua poca fiducia nei rapporti interpersonali e nei legami in genere, della sua prospettiva disincantata e così poco americana sulle cose, da loser e non da trionfatore assoluto e predestinato per nascita divina.
Anything Else è insieme il più alleniano dei film di Woody Allen, una summa di tutti i temi a lui cari, e nello stesso tempo una sorta di congedo da uno stile rodato e perfetto come un meccanismo ben oliato, ma che ormai ha fatto il suo tempo.
Vi si ritrovano tutte le caratteristiche ricorrenti del suo cinema: New York in ogni stagione; una persona intelligente che vive immersa nelle nevrosi (sue e altrui); la vacuità di ogni promessa di fedeltà e dell’amore eterno; l’impossibilità di veder corrisposto felicemente il proprio amore; una madre/suocera insopportabile e castratrice che non sa accettare gli anni che passano; splendida musica blues e jazz.
Allen cede il testimone al Jason Biggs di American Pie, credibile e misurato, nel vestire i panni di Falk, un giovane intellettuale tormentato dalla propria incapacità di troncare qualunque tipo di relazione per quanto insoddisfacente possa essere. Falk è un comico dotato e raffinato, oppresso da uno psicanalista che non lo aiuta per niente, da un agente incapace che lo sfrutta e da una donna che lo tradisce, lo raggira e lo usa come meglio crede.
La sempre meravigliosa Christina Ricci interpreta infatti Amanda, aspirante attrice dal pessimo carattere, egocentrica e in preda ad enormi crisi bulimiche; riesce ad essere veramente odiosa e insopportabile: lo spettatore medio la picchierebbe alla terza scena, e invece Falk la considera uno schianto e continua a pendere dalle sue labbra fino alla fine: ancora una volta sarà lei a lasciare lui e non viceversa.
Se Falk è una sorta di alter ego più giovane di Allen, porta gli occhiali e veste addirittura come lui, Allen si ritaglia un ruolo di mentore diverso dal solito e quasi spiazzante: gira col macchinone, odia la psicanalisi, è stato in manicomio, è un maniaco delle armi e dell’autodifesa, forse uccide un poliziotto per alcune battute antisemite.
Porta all’eccesso alcune caratteristiche che lo hanno accompagnato fin dalla sua prima apparizione sullo schermo (l’autoerotismo, a cui sono dedicate alcune delle battute migliori; l’umorismo ebraico-newyorchese; la scrittura di gag; un matrimonio fallito alle spalle) rendendole volutamente caricaturali e grottesche, mentre ne stravolge altre: sentirlo sminuire la psicanalisi e gli psicanalisti fa un certo effetto, vederlo che si aggira con cognizione di causa in un’armeria, deciso a regalare un enorme fucile russo a Falk, è quasi surreale.
Il film non è impedibile, non è il suo film migliore, ma offre uno scorcio su qualcosa che poteva essere e non è stato: personaggio alleniano per eccellenza, Falk alla fine del film cambia pelle; riesce suo malgrado a liberarsi da tutte le catene che lo legavano a una vita infelice, e a partire per la California dove lo attende un lavoro gratificante e stimolante. Abbandona New York, la psicanalisi, una donna che non lo ama e si mette in viaggio da solo verso la Mecca del Cinema e della Tv, mai amata da Allen e spesso messa alla berlina.
Woody sembra accompagnare la crescita e la presa di coscienza di questo suo alter ego più giovane e già così simile a lui, mettendolo in guardia da alcune delle sue maggiori ossessioni; sembra che gli dica: la vita è breve, goditela, non pensare troppo, non farti mettere in gabbia.
Soprattutto per questo, per il garbo, la modestia e la lucidità di Anything Else, non gli si può non dire: grazie Woody, e alla prossima.