The blues “dal Mali al Mississipi”
Regia: Martin Scorsese
Prodotto da: Sam Pollard
Attori/ospiti: Corey Harris, Othar Turner, Ali Farka Tourè, Salif Keita, Habib Koitè.
Fotografia: Hartur Jafa
Ho sempre ammirato l’uso delle musiche che Martin Scorsese fa nei suoi film, quindi a inizio anno non mi ha sorpreso la coordinazione di questi 7 documentari sul blues, di cui uno realizzato direttamente da lui.
Scorsese comincia con la sua voce off che spiega, in pratica, che il blues appartiene alla tradizione e alla cultura degli afroamericani e quindi fa la scelta, intelligente, di far condurre le interviste ad un afroamericano: Corey Harris.
Insieme viaggiano per le terre del sud degli stati uniti e, nella seconda parte, per il Mali.
La cosa che più mi fa parlar bene di questo documentario è sì la passione e la conoscenza che traspare, ma soprattutto la scelta di Scorsese di parlarci di musicisti poco conosciuti della storia del blues e, a ritroso, attraverso la storia degli afroamericani risale all’Africa occidentale, nel Mali con i suoi cantastorie e musicisti conosciuti come Salif Keita.
Tutta la prima parte è piena di registrazioni del passato e di immagini di repertorio “veramente” storiche che mi hanno rapito: all’inizio c’è una sequenza con tre musicisti in mezzo ai campi che suonano un pezzo fantastico con piffero, due tamburi e voci… veramente grande, che poi viene ripreso con piffero, grancassa e rullanti.
Viene raccontato come il blues nasce tra i neri che lavorano nei campi di cotone, come la grammatica sbagliata sia (quasi) nella tradizione, come nascondevano l’insofferenza per il padrone bianco parlando di donne meschine e traditrici…
Viene raccontato come fosse vietato agli schiavi l’uso di percussioni e quindi come questa cosa fosse visibile nella tecnica del suonare la chitarra di certi bluesman, come il grande Son House…
Viene raccontata la storia di uno strumento finito un po’ in disuso come il piffero, che con Othar Turner (intervistato con alle spalle una casa con finestre rotte e strade non asfaltate) riesce veramente a farti arrivare il blues…
Poi si vola in Africa, per cercare le radici e qui per la strada si ritrovano sonorità che si ricollegano ad altre sentite nei filmati di repertorio e a ciò che viene cantato nelle canzoni di S.Keita cioè l’amore.
Si finisce, però, con un bel messaggio di uguaglianza e appartenenza, sia dei neri del Mali e del Niger che di quelli statunitensi… qui mi ha dato un senso un po’ retorico e, provocatoriamente, a proposito dei testi ho pensato: ma se nell’hip hop di oggi le ragazze afroamericane parlano di dollari, macchine e dicono di chiamarle “bitch”! Cos’ha a che fare tutto questo con parole poetiche come quelle dei testi di Salif Keita? Forse potrà spiegarlo Chuck D (dei Public Enemy da sempre impegnato politicamente) nel documentario sul blues di Chicago diretto da M.Levin, con ospiti Roots, Common e altri (musicisti che ho sempre ammirato).
In fin dei conti le storie, che siano film o documentari, le si racconta per passione e per quel che arriva dai protagonisti. Scorsese sa scavare nel profondo, citando spesso il lavoro del grande Alan Lomax (che raccolse le registrazioni di ballate popolari per la Biblioteca del Congresso), non parla solo di personaggi famosi come Robert Johnson, ma anche di personaggi all’apparenza minori (O. Turner), metodo che usò anche nel viaggio nel cinema americano di qualche anno fa.
Ci saranno altri 5 documentari dopo questo e il precedente di Wenders, diretti da: Clint Eastwood, Marc Levin, Mike Figgis, Charles Burnett e Richard Pearce.
Gregorio Caporale