TANGUY

Tanguy è un brillante giovane di 28 anni sempre sul punto di laurearsi che, nonostante gli introiti che gli provengono dall’insegnamento della lingua cinese e da decine di altre attività, non ha nessuna intenzione di abbandonare l’appartamento dei suoi genitori, ai quali è legato da un affetto quasi morboso. Così se la prende comoda: mangia e non sparecchia, si fa una doccia e lascia per terra un pantano, si porta in camera ogni sera una ragazza diversa (nonostante sia brutto come la fame, potenza della cultura!). I poveri genitori, ormai sull’orlo dello sfinimento nervoso, decidono allora di cominciare a rendergli la vita impossibile, con la speranza che il loro rampollo scelga finalmente di levare le tende. Non sarà così facile.

Spinto alla visione di questo film da mesi di elogi sperticati del tipo “si ride con le lacrime dall’inizio alla fine”, decido di superare la mia naturale avversione per le commedie francesi (quelle tipo Veber o Serreau non certo quelle di Rivette o di Resnais) e butto via 4,20 euro per vedere “Tanguy”, che è esattamente il film che mi aspettavo di vedere: una commedia finto-sovversiva che non ha le palle per reggere e portare alle estreme conseguenze lo humour nero di cui si ammanta nella prima parte, e volando quindi bassissimo nel tentativo di sfruttare tutte le (relative) potenzialità contenute nella striminzita ideuzza di partenza e chiudendosi infine, come colpo di grazia, nel più edificante dei ritorni alla normalità, con genitori, figli, nonne e suoceri a godere della ristabilita armonia familiare.

Gli unici momenti davvero divertenti di questo “parto creativo” di un ex pubblicitario scafatissimo (a nome Etienne Chatillez) sono le improvvise e violentissime esplosioni di volgarità dell’apparentemente impeccabile padre di Tanguy (un grande André Dussollier), che riesce a farmi rimpiangere un po’ meno gli euro volati via quando, scagliandosi contro quell’idiota del figlio, lo definisce genialmente “fastidioso come un pelo di culo tra i denti”.

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