PANIC ROOM
A New York una donna divorziata è alla ricerca di un appartamento per trasferirvisi con la figlia. La scelta cade su una splendida casa su tre piani dotata di un curioso accessorio, la panic room, vale a dire una sorta di bunker a prova di bomba in cui potersi rifugiare in caso di pericolo.
La stessa sera in cui le due donne prendono possesso dell’alloggio, tre rapinatori fanno irruzione nell’appartamento alla ricerca di un favoloso bottino. Ovviamente madre e figlia si rinchiuderanno nella stanza inviolabile ma, coincidenza, il tesoro nascosto di cui i malintenzionati vogliono appropriarsi si trova proprio lì dentro…
A tre anni di distanza dal controverso Fight Club, Fincher mette da parte le ambizioni e gira un film-giocattolo costruito in maniera meccanicamente impeccabile ma privo di emozioni forti e, soprattutto, vere. Se la macchina da presa del regista sembra a volte dotata di ali e quasi incorporea per come volteggia in piano sequenza (anche se molti di questi sono “truccati”, con i raccordi cancellati al computer), e se la confezione è di una bellezza degna di migliori occasioni (la fotografia è di Darius Khondji e di Conrad L. Hall, la musica di Howard Shore), si rimane abbastanza freddi davanti a tanta bravura tecnica mal supportata purtroppo da una storia che segue strade e stereotipi già ampiamente trattati altrove e con maggior convinzione, incapace quindi di suscitare inquietudini reali e profonde, come invece avveniva mirabilmente in un altro film di Fincher, quel Seven che aveva fatto gridare (in maniera troppo prematura) alla nascita di un nuovo autore.
Finita la visione, le cose che rimangono in mente sono la bravura ammirevole della Foster e di Whitaker, gli splendidi titoli di testa che risaltano come cartelloni pubblicitari sui palazzi di New York, e la spiacevole sensazione di essere stati manipolati da uno sceneggiatore (David Koepp) forse più furbo che realmente bravo.