NO MAN’S LAND
Nel 1993, durante la guerra in Bosnia, tre soldati si trovano a condividere la stessa trincea, e la situazione presenta due grossi problemi: il primo è che uno dei soldati è serbo e due sono bosniaci e, come se non bastasse, uno dei due bosniaci è sdraiato su una bomba e non può muoversi per non far saltare in aria tutto nel raggio di trenta metri. I caschi blu, con le mani legate da ordini superiori e preoccupatissimi di mantenere una paradossale equidistanza, non sanno che pesci prendere, mentre i giornalisti aspettano spasmodicamente uno scoop qualsiasi. E nel frattempo, nella “terra di nessuno” in cui si trovano i tre poveretti, la tensione comincia a farsi insostenibile…
Premio Oscar come miglior film straniero, “No man’s land” non è un’opera esente da difetti: la situazione grottesca di partenza è l’emblema sin troppo didascalico dell’assurdità di una guerra fratricida, e il modo in cui sono tratteggiati certi personaggi (come il “capoccia” dell’ONU o i soliti giornalisti avvoltoi) rischia di annacquare l’indignazione nella farsa. Eppure, ingenuità di scrittura a parte (la sceneggiatura è opera dello stesso regista, Danis Tanovic), il film ha il coraggio del pessimismo e mette il dito nella piaga di una ferita ancora sanguinante, quella di una tragedia tra le più insensate, avvenuta per di più alle nostre spalle e nella nostra sazia e rassegnata indifferenza, una tragedia dove, come nei dispetti che si fanno i bambini, non si sa chi ha cominciato (come mostra una feroce gag della pellicola) e forse non si sa neppure perché tutto sia cominciato.
La mancanza (obbligatoria) del lieto fine e l’immagine finale (difficile da dimenticare) su cui la gru dell’operatore si innalza inesorabilmente, fanno acquisire ulteriori meriti ad un film che, fra i tanti, ha anche quello di aver portato a casa un sacrosanto Oscar soffiandolo a quell’insopportabile fighetta snob di Amélie.