LANTANA
Un poliziotto sposato e padre di due figli comincia una relazione extraconiugale con una donna da poco separatasi dal marito. Nel frattempo sua moglie è (segretamente) in cura da una psicoanalista che ha visto morire la sua unica figlia di undici anni in un misterioso incidente e che, da quel momento, fatica a comunicare con il marito e teme che quest’ultimo la tradisca addirittura con un suo paziente. La scomparsa dell’analista e il ritrovamento a distanza di giorni del suo cadavere, farà scattare un’indagine che coinvolgerà tutti i personaggi della vicenda, costringendoli a fare i conti con i propri fallimenti e obbligandoli a cercare un senso nelle loro vite allo sbando.
Premiato nel 2001 con cinque premi AFI (gli Oscar australiani), e tratto da un testo teatrale di Andrew Bovell dal titolo “Speaking in Tongues”, questo “Lantana” è un anomalo thriller dei sentimenti che, nonostante inizi “lynchinamente” con la macchina da presa che si fa strada tra intricati cespugli di erba (la lantana del titolo) per andare a scoprire il cadavere di una donna, rinuncia a mettere in primo piano gli aspetti investigativi riguardanti l’indagine poliziesca vera e propria, approdando invece ad un approccio quasi esistenzialista alla materia trattata, e mettendo in primo piano il dolore e il disagio che tutti gli attori del dramma, ciascuno per un motivo diverso, si portano dentro.
In questo modo il versante per così dire “poliziesco” è relegato nell’ultima mezz’ora (su una durata complessiva di due ore), ed è funzionale principalmente ad un’altra indagine che scorre parallela a quella che riguarda la sparizione della donna, quella forse più sofferta e lancinante, e che riguarda l’apatia e lo squallore, le vite grigie e l’afasia che coinvolgono un’umanità ormai incapace di guardarsi dentro e aprirsi agli altri, un’umanità metaforicamente (e fin troppo platealmente) rappresentata dal detective col cuore sempre sul punto di scoppiargli, vittima di un’aggressività che gli procura attorno soltanto terra bruciata e cupi risentimenti.
La regia di Ray Lawrence (che ha alle spalle un solo film e una onorata carriera pubblicitaria) scruta rispettosa le vicende di questi poveri uomini e ha il pregio di non essere mai invasiva, ma il vero piatto forte del film sono gli attori, tutti magnifici e tutti australiani, se si eccettua la grande Barbara Hershey la quale, avendo superato abbondantemente i quaranta, non trova più cittadinanza nella stupida e miope produzione hollywoodiana.