DUST

di Milcho Manchevski
con David Wenham, Adrian Lester, Rosemary Murphy,Joseph Fiennes

Il ladruncolo Edge (Lester), costretto a rimediare urgentemente ottomila dollari, s’intrufola nell’appartamento di una energica vecchia (Murphy), che lo sorprende, gli rompe il naso e, minacciandolo con una pistola, comincia a raccontargli una storia di cent’anni fa, che ci riporta nel vecchio West. E’ la storia di due fratelli, Luke (Wenham) ed Elijah (Fiennes), innamorati della puttana Lilith, la quale scelse il secondo e lo sposò. Luke, allora, partì per l’Europa, giungendo prima a Parigi, poi in Macedonia. Qui diventò un cacciatore di taglie, fino al giorno in cui fu raggiunto dal fratello…

Così, l’anomalo western di Manchevski diventa ben presto un “eastern”, violentissimo e crudo, fatto di polvere (dust, appunto), sangue, sudore e mosche, ma anche fortemente ironico, di un’ironia grottesca e spiazzante, e parentesi metalinguistiche che caricano di senso la storia. Temi centrali di questo film sono, infatti, la memoria e il racconto, magici anelli che possono unire solitudini diverse e lontane, come quella della vecchia Angela e del giovane Edge, e poco importa dove finisca la Storia e dove cominci il romanzo. Momento cardine, secondo me, è la sequenza in cui Luke arriva a Parigi e scopre la meraviglia del nuovo secolo: il cinematografo. Questa sequenza è girata come un film dei primi del Novecento: in bianco e nero, con i tipici “sganci” di montaggio, con la pellicola un po’ malconcia. Inoltre, nel documentario sui ribelli macedoni che Luke sta guardando, c’è un’esplicita citazione da un film del 1903, “La grande rapina al treno” di E.S. Porter (l’immagine del pistolero il primo piano che spara contro la cinepresa, spaventando il pubblico).

Il punto è questo: con questa sequenza il film si presenta palesemente come film, dichiara allo spettatore il suo “essere racconto”, e quindi costruzione, artificio. Ed è questo che conta, alla fine. E’ questo che dà senso alla vicenda di Luke, romanzesca e inverosimile, dove le cose possono variare come piace al narratore, dove i morti possono cambiare idea e rialzarsi, dove i soldati da duecento improvvisamente diventano venti (una delle sequenze più belle e originali del film, purtroppo un po’ guastata da effetti sonori enfatici e pesanti), dove si salta continuamente attraverso il tempo, e un cowboy può veder passare sopra di sè un Boeing di linea. Ed è questo che dà senso al finale, con Edge che entra a far parte delle foto di Angela. Edge ha capito il gioco, e ha deciso di dare un seguito alla storia e alla memoria di Angela, che ora è anche la sua. Così, prende le redini della narrazione, e va avanti. Tutto ciò di cui ha bisogno è un’ascoltatrice…

Un film stilisticamente forte e virtuosistico, dal montaggio fantasioso e dalla sceneggiatura, a volte, un po’ claudicante. La cosa che più colpisce è la sua mistura di tragico e comico, spesso nella stessa sequenza, a volte nella stessa inquadratura: il contrasto di toni crea un effetto che può irritare o affascinare, ma è tipico dei registi balcanici (basti pensare al bellissimo e bizzarro “Underground” di Kusturica). Ne fanno un po’ le spese i personaggi, alcuni dei quali decisamente macchiettistici, e la compattezza del film, che finisce per risultare, francamente, un po’ sgangherato. Abbondano le citazioni, ovviamente attinte dall’immaginario western (coerentemente col discorso che facevo prima): Peckinpah, prima di tutto, ma anche Leone e Kurosawa (il cane con la mano mozzata in bocca è tratto dalla “Sfida del samurai”). Esilarante (e quasi demenziale) la citazione di Corto Maltese, con Luke che gli dice “Tu cosa ci fai qui?”, e poi lo ammazza.

Tra gli interpreti, i migliori sono quelli della parte “contemporanea” a New York, cioè Lester e Rosemary Murphy, mentre Joseph Fiennes, con la solita faccia da cernia, è ancora una volta monocorde e piuttosto antipatico.

Domenico Zàzzara
dizeta79@yahoo.com

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