THE RING, LA VENDETTA DELLA TV ABBANDONATA

ATTENZIONE:
in questo approfondimento vengono svelati particolari sconsigliati a chi non ha visto il film.

Noah sta prendendo visione della videocassetta omicida e Rechel, inquieta, esce sul balcone. Davanti a lei un palazzo i cui muri sono vetri e lasciano vedere gli interni, gli appartamenti, le vite monotone delle persone. Un monumento spalancato allo sguardo: chiunque può farvi cadere un’occhiata, distratta, mentre si occupa d’altre faccende. Un po’ come accade con la tv.

Primo appartamento: una persona passa da una stanza all’altra, per farlo attraversa il salotto. Sullo sfondo la televisione è accesa ma nessuno è accomodato sul divano, nessuno la guarda. Secondo appartamento: un uomo parla al telefono, si siede. Sullo sfondo la televisione è accesa, ma lui è troppo impegnato nella conversazione. Terzo appartamento: una donna sta pulendo il pavimento. Sullo sfondo la televisione è accesa, ma la casalinga è dietro l’apparecchio e il rumore dell’aspirapolvere, probabilmente, copre l’audio. Forse è tutto qui il senso celato dall’opera di Gore Verbinsky, lì si apre la metafora di “The Ring” e il suo messaggio spaventoso assume la forma lucida dell’accusa. Accusa alla cultura troppo leggera dello sguardo fugace, della televisione lasciata parlare, sempre, sullo sfondo, e mai degnata d’attenzione vera. Perennemente illuminata eppure mai analizzata nel profondo, mai osservata criticamente.

Abbandonata ai suoi colori e ai suoi suoni perpetui, solo sfiorata ogni tanto fra un’occupazione e l’altra, fra un pranzo e un caffè, fra una telefonata di lavoro ed un problema di matematica. E’ questa la tv logorante, quella che vendica la sua solitudine inondando il cervello umano con immagini e rumori solo accennati ma ridondanti. Messaggi che sembrano scivolare via e invece si accumulano nella mente, la stordiscono con la ripetizione di forme che, quasi ignorate, restano vuote e finiscono per corrodere, occupare, ingannare. “La televisione”, sostiene la condannata Katie in apertura, “diffonde nell’aria migliaia di onde elettromagnetiche che fanno sì che le nostre cellule celebrali si distruggano più rapidamente del normale”. Onde nell’aria che lasciamo espandere senza volerle cogliere. Onde che ci uccidono, lentamente. Qualche minuto dopo, Katie morirà giustiziata dalla piccola Samara. Samara è la televisione. Nel video che mostra l’interrogazione della bambina, all’interno dell’ospedale psichiatrico, si scorge qualcuno che la collega alla parete con un cavo: è la spina della tv che viene inserita nella presa. Nel pre-finale intravediamo come il mostro colpisce Noah: con sguardi di forte luce televisiva, con lampi di una tv adirata che feriscono a morte, vendicativi, il telespettatore. Le occhiate distratte del pubblico tornano indietro con la potenza di raggi laser.

Lo sguardo, la luce, la tv, la morte. L’azione letale della bambina sta principalmente nella capacità di auto-generare foto. Sono i fotogrammi partoriti dalla televisione. Samara ha una malattia: “lei non dorme mai”, avverte il piccolo Aidan. Come la tv. E distrugge la gente. “Non voglio fare del male”, sostiene la bambina, “però lo faccio. Questa cosa non finirà”. La tv incarnata nell’innocenza di una fanciulletta che non può essere malvagia in sé, che lo diventa perché vorrebbe solo essere ascoltata e nessuno la accontenta. Che assume inclinazioni assassine indipendentemente dalla sua volontà. La televisione non è dannosa in quanto tecnologia, non lo è nemmeno per le trasmissioni che diffonde. Lo diviene se si sceglie di lasciarla in un angolo a rumoreggiare, sempre attiva e mai ascoltata. Se non la si fa dormire, mai. Conseguenza: le sue icone sembrano passare in superficie e invece, non viste, si sostituiscono ai nostri pensieri. Vivono al posto nostro, iniziano di nascosto a parlare attraverso noi lasciandoci pochissimo tempo per vivere di immagini personali e di identità autentica. Lasciandoci, forse solo sette giorni.

“Non abbiamo abbastanza tempo”, sussurra Aidan a Rechel ancor prima che su di loro si abbatta il turbine della disgrazia. Quei simulacri di sottofondo ci si ritorcono contro, ci deformano proprio perché non li comprendiamo. Si trasformano in un’ esistenza parallela e opprimente anziché essere, di tanto in tanto, parte importante della vita vera. Divengono confusione e contaminazione. Nelle filosofie orientali, Samara è il nome con cui si indica la realtà dubbia e ingannevole che ci circonda, opposta alla verità assoluta del Nirvana. Ecco l’annuncio di “The Ring”: Samara “voleva solo essere ascoltata”. E invece al mondo c’è sempre qualcuno che non guarda la tv e continua a lasciarla accesa, non le permette di dormire. “Stare nella stalla non le piace”, rivela Aidan, “perché i cavalli non la fanno dormire, di notte”. Come gli uomini che vivono nel modo peggiore il loro rapporto con il piccolo schermo, che non sono usciti davvero dalla loro dimensione arcaica e non hanno imparato a usare l’apparecchio nel modo migliore. L’intera storia di Samara e della sua famiglia appare come una lunga allegoria dell’ingresso della televisione nella società. La vita della madre, Anna Morgan, si dice appaia divisa in due. La prima parte ovattata, serena, passata con il marito Richard ad allevare cavalli sull’isola di Moesko. E poi qualcosa che accade: i cavalli impazziscono e muoiono, lei perde sua volta la ragione e infine si suicida. Un evento ha cambiato tutto, in un momento preciso: dopo una serie di aborti, è stata adottata la piccola Samara. Anna aveva cominciato a vedere immagini terribili e ciò le accadeva solo in presenza della bambina. E’ la televisione che è stata introdotta in una società antica e impreparata, abituata a vivere di natura e semplicità. I cavalli sono animali, avvertono le calamità prima degli uomini e prima di loro comprendono gli effetti devastanti che l’innovazione porterà con sé. Come con i terremoti. Ma i cavalli sono anche, a loro volta, rappresentazione degli umani: umani abituati ad esistere in un mondo impreparato al nuovo ed incapaci di un approccio sensato al mezzo televisivo. Lo accolgono nel modo sbagliato e muoiono, come Anne. Come Katie. Come tutte le vittime di Samara. Richard Morgan ha un atteggiamento diverso e a sua volta emblematico: comprende i poteri tremendi della figlia ma nemmeno lui prova ad ascoltarla. La rifiuta, la allontana, la relega nella stalla. Rechel e Noah scopriranno la piccola prigione nella quale l’uomo lasciava segregata la figlia. “La teneva qui da sola”, constata Rechel. “No, non da sola”, la contraddice Noah fissando da vicino l’apparecchio televisivo posto al centro del piccolo nascondiglio sopraelevato. Samara non viveva sola, viveva assieme a una televisione. Assieme a un suo simile, in qualche modo. “Mio padre voleva mandarmi via, lui voleva bene ai cavalli”. Richard Morgan amava il suo piccolo mondo remoto, il mondo protetto degli animali e dell’allevamento. Comprendeva come sua figlia stesse distruggendo chi gli stava intorno e provava a respingerla. A debellarla. La reazione dell’uomo quando scopre che Rechel si è introdotta per la seconda volta in casa sua, insistendo nell’indagine, è emblematica: “ma che avete voi giornalisti? Vi appropriate delle disgrazie e le diffondete come un’epidemia”. I giornalisti stanno dall’altra parte dello schermo, diffondono i programmi e quelle immagini che si conficcano nei telespettatori indifesi. Richard si scaglia contro di loro e poi denuncia gli strumenti dell’azione distruttrice di Samara: “quei sussurri… e quelle foto… che cosa non faceva vedere!” Il video e l’audio, crudi e crudeli: le armi mortali della televisione. Morgan aveva creduto di poter resistere ma ora, di fronte a Rechel, comprende che non c’è nulla da fare: solleva rabbiosamente l’apparecchio televisivo, lo porta in bagno, lo collega, stringe i fili attorno a sé e poi si getta nell’acqua della vasca. Vuole morire, anche lui, ucciso dalla figlia. Pone fine alla fuga inutile che invece continua a coinvolgere la giovane amica di Katie, l’unica che ha assistito alla morte della coetanea: lei ora vive in un ospedale psichiatrico e cammina con un velo accanto a sé perché va in crisi ogni volta che vede una tv. E’ stata a sua volta punita, dopo che nella prima scena aveva detto alla compagna “scegli il canale che vuoi, non m’importa, io odio la televisione”. E nel frattempo, stancamente, la guardava. Rechel, lei sì, si salverà. E salverà suo figlio. Bastava fare un copia della videocassetta, bastava ascoltare Samara, bastava assumere l’atteggiamento attento dell’indagatore. Analizzare. Esplorare. Capire. Certo, alla fine la sopravvivenza passa per l’atto meccanico della riproduzione della pellicola. Ma si tratta di un espediente cinematografico e di un simbolo al tempo stesso: normalmente, si riproduce ciò che ci interessa. Per non morire si deve giungere al gesto conclusivo compiuto nei confronti di qualcosa che non si vuole perdere, non si vuole lasciar andar via, si desidera ri-vedere e ri-analizzare e comprendere ulteiormente. Giungere alla duplicazione. Una copia per sé stessi o una copia per gli altri, per diffondere quello che ha destato la nostra attenzione e da cui si è stati coinvolti. E gli altri, se non capiranno, moriranno. Ma sarà colpa loro. Saranno responsabili ignari eppure colpevoli della propria tragedia, se lasceranno cadere il messaggio. Il primo piano finale di Rechel è il volto dell’impotenza che risponde alle interrogazioni sollevate da Aidan circa il destino delle persone che vedranno la videocassetta appena ricreata. Rechel non può fare niente, lei ha capito ed ha agito, si è salvata ma non può salvare tutti. Coloro ascolteranno davvero Samara, vivranno. Lei, la giornalista, lo ha fatto con lo spirito intraprendente di chi solitamente sta dall’altra parte del mezzo ed è abituato a conoscere pienamente i testi perché ne è creatore, perché li distribuisce anziché riceverli. Li moltiplica, li diffonde, produce copie. Si salva perché studia ed è consapevole, perché non può essere ingannato, perché moltiplica il programma e lo porge ad altri. Li spinge verso la fine, forse. Ma non si pensi che solo il giornalista possa sottrarsi al destino e che lo faccia sacrificando innocenti. Rechel è l’eroina del film, non il cattivo. Rechel non è il male, è semplicemente l’unica a comprendere la sofferenza di una ragazzina disperata: “lei voleva solo essere ascoltata. Capita spesso che i bambini vogliano essere ascoltati”. E non si pensi che i colpevoli veri siano coloro che stanno al di là dello schermo, che producono i contenuti televisivi, che li diffondono. Se portano disastri non è colpa loro e non è colpa del mezzo in sé. Chiunque potrebbe capire e vivere, se solo tentasse. Non prendetevela con Rechel e nemmeno con Samara. La scelta di una bambina per rappresentare il volto mortale della televisione è ampiamente indicativa: la piccola fa tenerezza al telespettatore più spesso di quanto li terrorizzi. Di tanto in tanto ci si ritrova quasi a parteggiare per lei. Dopotutto è un’innocente che ha subìto ogni sorta di maltrattamenti: costretta a vivere in una stalla, uccisa e gettata in un pozzo solo perché chiedeva attenzione. I bambini non nascono mai malvagi, sono le circostante che a volte li incattiviscono. Le tecnologie non nascono come dannose, è l’uso che se ne fa a poterle rendere devastanti. Samara che per qualche secondo torna in vita, fra le braccia di Rechel, nel pozzo, proprio nell’istante in cui la donna credeva di dover morire, celebra la congiunzione dolce fra la tv positiva e chi ne ha compreso davvero il valore. I colpevoli sono gli altri, le vittime. Vittime di sé stessi prima che della bambina, come Anna e Richard Morgan. La madre che voleva a tutti i costi una figlia e che per quella figlia perde la ragione perché non sa capirla. Il padre che vuole respingere il nuovo e rifiuta qualsiasi tipo di ascolto, corretto o sbagliato, senza rendersi conto che ormai non si può più tornare indietro. L’unica strada vera per liberarsi degli incubi portati da Samara sarebbe stata il tentativo di capirla. Tutta l’isola di Moesko, in realtà, pare una rappresentazione metaforica della società che rifiuta di evolversi oltre una vita a ridosso della natura. La dottoressa che ha avuto in cura Anna e Samara, interrogata da Rechel, sostiene che “da quando Samara se ne è andata le cose vanno meglio” e che la presenza della bambina aveva peggiorato l’intera popolazione del luogo perché “quando qualcuno prende un raffreddore, qui, questo diventa di tutti”. La stessa dottoressa si prende cura di un giovane ritardato che di nome fa Darwin: il nome dell’evoluzione. L’evoluzione che a Moesko si è fermata, come si è fermata quella del ragazzo, perché ci è mostrati incapaci di accogliere l’innovazione. Si è andati verso il vortice del maledetto.
Nel frattempo, Verbinsky lascia che “The Ring” si perda in un accumulo di segni affastellati, ripetuti, svariati. Le finestre che si aprono, l’acqua sul pavimento, i volti cancellati, la presa della mano sul braccio. Persino il filmato assassino è costituito da una serie di indizi e immagini che si accostano e che all’apparenza non hanno significato vero, non dicono, non sanno. Inquietano ma non spiegano, spaventano nel momento in cui non si lasciano decifrare. Restano forme vuote perché alla fine si rinuncia ad analizzarli. Tanto numerosi che inevitabilmente perdono d’importanza e si decide, inconsciamente, di lasciarli scorrere senza curarsi del loro senso. “The Ring” è un guazzabuglio di simboli che rimandano a tutto e a nulla contemporaneamente, divengono sempre più frequenti, ci stordiscono. L’albero disegnato sulla parete, la scala, la porta del pozzo che si chiude da sé e i puntelli del pavimento che si alzano d’improvviso. Servono, sì, eppure non sembrano indispensabili. Ci stanchiamo di tentare una loro interpretazione, li trascuriamo relegandoli in un angolo dello sguardo e dell’attenzione. Come facciamo con quel piccolo schermo lasciato sempre acceso nel sottoscala dell’esistenza, col rischio che esso si vendichi tremendamente. “The Ring”, nel suo essere anche successione ininterrotta di segni sottovalutati, ci include nella metafora che esso stesso costruisce perché possiamo, forse, comprenderla dall’interno. E perché oltre ogni allegoria e ogni patina fantastica ci appaia la verità concreta di una storia desolata: Anna e Richard Morgan, durante un viaggio, non avevano adottato nessuna figlia. Avevano comprato la televisione.

Federico Sperindei
fedsperi@hotmail.com

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