OASIS
Coraggioso il regista coreano Lee Chang-dong: non è facile raccontare il mondo dei disabili, con la trappola del patetico sempre in agguato. Ed è ancora più difficile raccontare il sesso tra disabili. Ma, grazie alla storia di un amore tanto puro (e fisico) quanto impossibile, il regista riesce a trasmettere l’umanità di due personaggi ai limiti della società, la volontà di Hong Jong-du (Sol Kyung-gu) di essere amato dalla sua famiglia, e quella di Han Gong-ju (Moon So-ri) di sentirsi donna al di là dell’handicap.
Una storia che a raccontarla ha dell’inverosimile: lui è un uomo di 29 anni con il cervello di un adolescente, appena uscito di prigione per omicidio colposo (compiuto in realtà dal fratello maggiore), che torna a casa e tenta di farsi posto in una famiglia e in una società ormai tanto globalizzata da non concedere più spazio alla diversità e alla gioia di vivere (è significativa la scena in cui l’adorato fratello Jong-ll (Ahn Nae-sang) dice chiaramente a un attonito Jong-du ‘Devi crescere, e crescere vuol dire uniformarsi alla società’).
Lei è la figlia dell’uomo ucciso, alla quale, forte della sua straordinaria ingenuità, Jong-du torna a fare visita per chiedere scusa. Una ragazza spastica che non riesce a stare in piedi e tenta a malapena di parlare. E, dopo un primo approccio non proprio idilliaco, l’amore sboccia, tra tocchi di poetica fantasia, dove le luci create da uno specchio possono trasformarsi in farfalle e colombe, e dove anche una donna immobilizzata in un corpo deforme può diventare una bellissima ragazza che canta, balla, scherza e litiga con il suo fidanzato. La felicità è fatta di gite fuori casa, quando finora per Gong-ju (Principessa) l’unico mondo è stato lo squallido appartamento in cui la costringe a vivere il fratello, cenette a base di spaghetti e danze sull’autostrada in mezzo a decine di macchine bloccate dal traffico.
Una felicità infranta dall’insensibilità e dall’egoismo del mondo circostante (la scena al ristorante è disturbante, così come lo è ancora di più quella al compleanno della madre di Jong-du), che non permette non solo di integrarsi, ma neanche di vivere liberamente il proprio amore. Un film girato completamente dal punto di vista dei teneri protagonisti, in cui l’handicap può non solo commuovere e indignare (senza però nessun tipo di compiacimento), ma anche divertire, grazie a leggere e sublimi pennellate di ironia. Intelligente anche la scelta di non chiudere la pellicola con la drammatica cattura del ragazzo, che, in un ultimo gesto di vero amore elimina la causa della più grande paura di Gong-ju, ma con l’immagine della ragazza intenta a riordinare casa, in attesa del ritorno del suo fidanzatino.
Un cenno a parte meritano gli interpreti: se Sol Kyung-gu riesce a dare al suo personaggio intensità e dolcezza, la prova della quasi esordiente Moon So-ri è a dir poco stupefacente. Più che meritato il premio Mastroianni a Venezia.
Nelle sale dal 14 marzo.