Chicago
Meritatamente candidato a tredici premi Oscar, tratto da un meraviglioso musical scritto dal geniale Bob Fosse nel 1975, a sua volta tratto da una piéce scritta dalla giovane Maurine Dallas Watkins nel 1926, Chicago è uno di quei film da vedere e rivedere. Non stanca, non annoia, e di visione in visione permette di cogliere anche i minimi dettagli che forse, ad una prima proiezione, erano sfuggiti. Un buon film si apprezza sul lungo periodo: se rivedendolo si notano più errori e incongruenze che altro, invece di gustarne nuovamente i passaggi, allora c’è qualcosa che non va. Tutto questo con Chicago non succede, anzi. Le successive visioni permettono di apprezzare maggiormente l’intreccio di canto e azione, le sfumature, l’ironia, le coreografie complesse e mostrate in articolate sequenze di montaggio alternate allo svolgersi degli eventi.
L’immagine con cui si apre il film è quella di un paio d’occhi, che solo successivamente saremo in grado di riconoscere come lo sguardo stralunato, infantile e dolce di Roxie Hart, eroina della nostra storia senza eroi. Non possono infatti esserci eroi, nella Chicago anni Venti innaffiata dall’alcool, che vive a ritmo di jazz, si inebria di denaro e trasgressione ma soprattutto di fama. Il crollo di Wall Street del 29 ottobre 1929 e la Grande Depressione sono ancora lontani; tutti hanno una forsennata voglia di vivere, di vivere velocemente e provare ogni emozione. Non esistono nero e bianco, e nemmeno la verità, tutto è finzione, tutto è finalizzato ad apparire, a sfondare, a ottenere visibilità.
Roxie non sa vedere la realtà, costruisce grazie alla propria immaginazione meravigliosi numeri musicali che alterano i fatti e ne stravolgono il significato. Vive perennemente davanti a un pubblico immaginario, l’unico in grado di comprenderla e apprezzarla veramente. L’intera struttura del film è dunque composta da esibizioni di canto e danza sfolgoranti, ricche di colori e movimento, di lustrini e costumi sgargianti, che si alternano in montaggi sempre più serrati al grigio squallore del carcere, alla compostezza delle aule di tribunale, alla vita vera, spesso avara di riconoscimenti e attenzioni.
Così la bionda Roxie, ex-ballerina di fila dal mediocre talento intrappolata in un matrimonio col quieto meccanico Amos, si lascia sedurre e ingannare dall’ennesimo venditore di fumo che le promette un luccicante futuro da soubrette. Quando l’amante sta per lasciarla e le sbatte in faccia l’impossibilità di realizzare il suo sogno, deridendola e maltrattandola, Roxie impugna una pistola e lo uccide. Gran parte della vicenda si svolge infatti nel carcere femminile della Contea Cook, nel braccio della morte che accoglie altre sei donne che hanno freddato mariti o amanti, per motivi futili o dopo l’ennesimo tradimento, come rivela lo splendido ‘Tango del Sole a Strisce’. Solo una delle detenute, una immigrata ungherese che in un inglese zoppicante sa dire solo ‘non colpevole’, si proclama innocente. Tutte le altre sono assolutamente pronte a confermare che sì, hanno ucciso, ma avevano le loro buone ragioni, e tra queste c’è la soubrette Velma Kelly, inizialmente idolatrata da Roxie.
Agli occhi ancora sognanti di Roxie, Velma appare come una che ha sfondato, prima showgirl di successo insieme alla sorella Veronica e ora regina della stampa scandalistica che le richiede interviste, senza lesinare su dettagli spassosi o piccanti sul duplice omicidio che la donna ha commesso. Il meccanismo si impara in fretta, sotto l’ala protettrice di ‘Mama’ Morton, giunonica secondina di colore che governa l’ala del carcere a suon di mazzette (una travolgente Queen Latifah): bisogna avere l’avvocato giusto, gli articoli giusti sui giornali, la faccia giusta. Uno zuccherino come Roxie riuscirà sicuramente a commuovere la giuria. Rischia l’impiccagione, ma?
Se nella realtà l’avvocato Billy Flynn che accetterà la sua difesa è unicamente interessato a riscuotere la sua parcella di cinquemila dollari, per potersi contornare di vestiti eleganti e macchine lussuose, lei lo immagina nei panni di un umile garzone che disdegna il denaro per ottenere le attenzioni di signore compiacenti. A Billy non importa che lei sia colpevole o meno, non gli interessa nemmeno riscuotere i favori sessuali che la bionda gli offre, riuscirà comunque a farla assolvere, basta che lei paghi. Basta distogliere l’attenzione e confondere stampa e giurati al processo, basta inventare un passato di maniera che nasconda come si son realmente svolti i fatti, tanto non interessa a nessuno. Si potrebbe anche inscenare una provvidenziale gravidanza, perché no?
Chicago intreccia continuamente piano degli eventi e piano spettacolare, in una infinita possibilità di letture diverse. C’è il processo per omicidio, il rischio di morire, una vita matrimoniale banale e noiosa, la voglia disperata di raggiungere la vetta, il successo, la notorietà. C’è lo squallore morale misto a cinismo di chi pensa che il crimine non sia uccidere, ma farsi scoprire. C’è la sventatezza di una donna che pensa di poter sfuggire all’impiccagione raccontando una torbida storia di alcool e sesso, laddove il destino dell’immigrata ungherese conferma che se sei povera e senza il giusto avvocato, puoi anche essere innocente, ma ti aspetta comunque la forca. Perché, come spiega lo stesso Billy, fare di Roxie un’eroina non è difficile e i quotidiani ci andranno a nozze, ma sarebbero ancora più felici di vederla condannata, perché venderebbero più copie. E se l’avvocato insegna alla cliente come vestirsi, cosa dire, soprattutto cosa non fare (magistrale il numero con i burattini e il ventriloquo, in conferenza stampa), se le fa tagliare i capelli come Mary Pickford e trascura Velma, la sua precedente protetta, quando si accorge che Roxie fa più notizia, non dimentica comunque che la stampa è vorace e non perdona nessuno, e tutto corre talmente in fretta che non c’è tempo per aspettare nessuno, se resta indietro. Più di una volta afferma ‘Questa è Chicago, sei solo un fuoco di paglia’.
Al prossimo omicidio, al prossimo scandalo, Roxie sarà solo acqua passata, un nome fra tanti. Lo dimostra, con un solo e raffinato dettaglio, una delle scene finali. Tornata in libertà, Roxie scopre che le cose non vanno lisce come credeva e di nuovo si sente dire di no ai provini. La raggiunge Velma, anche lei rilasciata e in cattive acque: il sorgere dell’astro di Roxie aveva fatto cadere in ribasso la bruna, presto dimenticata dalla stampa. Ora sono tempi duri per entrambe: a Roxie cadono gli spartiti, e quando Velma si china per raccoglierli le si scopre una gamba, mostrando calze sì nere e di seta, ma lise e piene di rattoppi.
Conta solo il successo e tornare in cima, essere famose e ricercate, non importa se raggiungi la fama come ‘assassina jazz’. La ricostruzione d’epoca è ricca, accurata, molto azzeccata: da Satchmo a Lindberg, da Sophie Tucker a Vanderbilt, tutto l’immaginario di quegli anni viene ripercorso. Luoghi, abiti, acconciature, è tutto perfetto. Sullo scorrere delle immagini vengono in mente le pagine al vetriolo di Francis Scott Fitzgerald e Dorothy Parker, mentre il modello incontrastato della flapper anni Venti è sempre lei, la Lorelei Lee di ‘Gli uomini preferiscono le bionde’, scritto in quegli anni da Anita Loos e portato sullo schermo (riveduto e corretto) nei Cinquanta dalla splendida coppia Jane Russell-Marilyn Monroe. Il film rende doverosamente omaggio alla coppia. Sia fisicamente che stilisticamente, la bruna e formosa Zeta-Jones (finalmente brava e incisiva) e la bionda ed esile Zellweger (che negli ultimi anni non ha mai sbagliato un film) evocano volutamente le due dive della pellicola di Howard Hawks, soprattutto nel numero finale, ma non solo in quello. Né si tratta dell’unica citazione.
Ma la forza di Chicago sta anche in questo: non è puro citazionismo di maniera, freddo e intellettualoide, ma sapiente rielaborazione di modelli amati, rispettati, compresi. Le ‘Gold Diggers’ di Busby Berkeley, Louise Brooks, i musical anni Trenta, il Technicolor dei film anni Cinquanta, A qualcuno piace caldo di Wilder, Cabaret e All That Jazz (oltretutto splendido numero di apertura del film) di Bob Fosse e altri titoli, tutto cade nel calderone del talentuoso Rob Marshall, all’esordio sul grande schermo ma pluripremiato coreografo e regista teatrale, come a suo tempo lo fu Fosse. Tutto cade nel calderone e ne esce trasfigurato, rivisitato, rinnovato. I numeri musicali portano chiara l’impronta di Fosse (a cui il film è dedicato), sono ben studiati e spettacolari senza risultare eccessivi, a meno che questo non sia l’effetto desiderato, come nel circo a tre piste che rappresenta il tribunale per Billy Flynn. Sia Richard Gere che le due ‘assassine jazz’ si muovono con classe e ironia, senza sbavature. Non sono ballerini professionisti, ma l’interpretazione è comunque ammirevole. Su tutti, l’assolo di tip-tap/arringa finale di Gere, splendido cinquantenne.
L’intreccio di finzione, realtà, canto, danza, fantasticheria, dissimulazione è dosato con attenzione e nello stesso tempo può spiazzare, a una prima visione. Chicago è un film da seguire con attenzione, se si vogliono cogliere fino in fondo rimandi e sfumature. Emblematico infine il soprannome che si conquista Amos (un commovente John C. Reilly, sorta di malinconico Charlot): in un mondo in cui conta solo fare finta di essere quello che non si è, dare in pasto al mondo una facciata il più sensazionale possibile, è l’unico che manifesti sentimenti sinceri e disinteressati, e per questo non può che venire schiacciato, risultare trasparente, passare inosservato come ‘Mr. Cellophane’.
In chiusura, una annotazione e un consiglio: indovinata la scelta di sottotitolare le canzoni, ma sarebbe stato bene non doppiare nemmeno le parti parlate che si trovano all’interno dei singoli numeri musicali; se volete farvi una chiara idea del ‘paradiso’ cui accennano Velma e Roxie nel numero finale, se volete scoprire lo spirito dei Ruggenti anni Venti, cercate un volume uscito da Einaudi alcuni anni fa: ‘The Wild Party’, poema in versi di Joseph Moncure March, scandaloso best-seller di quegli anni ristampato grazie all’interessamento di Art Spiegelman, che ne ha illustrato la presente edizione. Buona lettura.