L’importanza di chiamarsi Ernest

L’importanza di chiamarsi Ernest (The Importance of Being Earnest, 2002) di Oliver Parker, trasposizione dell’omonima commedia del grande Oscar Wilde in stato di grazia, è stato criticato da più parti come piatto, eccessivamente accelerato (‘!), recitato istrionicamente, freddo. Con i dovuti paragoni, mi è tornato in mente un articolo che ho letto da poco in cui si criticava non ricordo quale film in costume che sperava di assurgere al livello de L’età dell’innocenza (The Age of Innocence, 1993) di Scorsese, laddove Scorsese era considerato irraggiungibile. Tolto il fatto che io adoro Scorsese, ricordo distintamente che quando uscì L’età dell’innocenza, venne rimproverato al regista di essere freddo, accademico, di voler tentare di diventare Visconti senza averne l’innata eleganza etc’ Credo non sia necessario nessun ulteriore commento.
Un’altra critica mossa a Oliver Parker è stata quella di aver alterato l’ambientazione della vicenda, laddove Wilde è ancora attualissimo di per sé, senza bisogno di aggiunte. Ora’ Oliver Parker ha diretto tre soli film, tutti in costume, dimostrando inoltre col precedente Un marito ideale (An Ideal Husband, 1999), altra trasposizione di una commedia di Wilde, di essere assolutamente in grado, volendo, di rispettare il coté cronologico in cui un’opera si svolge. Le modifiche apportate, volutamente anacronistiche, a mio avviso intendono solamente sottolineare in modo un po’ teatrale, strizzando notevolmente l’occhio allo spettatore, che per l’ennesima volta siamo davanti a un inganno. Se Wilde, nella piéce, metteva alla berlina la dabbenaggine e la spocchia della buona società inglese, la convinzione che l’apparenza e le buone maniere siano tutto, affermando chiaramente che basta che l’inganno sia ‘ben truccato’ per diventare accettabile se non preferibile alla verità così cruda e volgare, il regista non ha fatto altro che mettere in atto un nuovo inganno, rendendo ancora più evidente il primo. Inoltre la storia di due amici-nemici che ingannano entrambi la donna che amano, assicurando di chiamarsi Earnest (che nell’originale suona come Ernest ma significa soprattutto ‘onesto, ricco, di buon livello’), è effettivamente ancora attuale, e trasportarla dall’originario periodo vittoriano agli anni Venti della musica Dixie rende solo evidente, una volta di più, che vivere nel mondo delle apparenze e della superficie è diventato, col passare dei decenni, il vero segno dei tempi. Lo è del resto ancora oggi.

Un appunto si può fare alla versione italiana, alla scelta di doppiare la canzone cantata da Rupert Everett e Colin Firth invece di sottotitolarla, alla infelice traduzione del titolo. L’importanza di essere Ernesto avrebbe reso almeno in minima parte il gioco di parole contenuto nell’originale inglese, laddove le due donne sembrano due pazze ossessionate da un nome, mentre l’importante non è solo chiamarsi Ernest ma essere Earnest, cioè onesti e affidabili. Come dire, onesto di nome e di fatto. Tutto questo nella versione italiana semplicemente non esiste, e quindi si perde l’ironia delle sognanti Cecily e Gwendolyn convinte di avere a che fare con due uomini probi e immacolati, come il nome indicherebbe, ma dopo un momentaneo broncio pronte a lasciarsi convincere da spiegazioni quanto meno frammentarie e compiacenti.
Le scenografie di Luciana Arrighi e i costumi di Maurizio Millenotti sono splendidi, eleganti e curati ma semplici laddove lo sfarzo non è necessario. Ho trovato inoltre fuori luogo le critiche agli interpreti. Judi Dench nel ruolo di Lady Bracknell è perfetta: amministra i pretendenti della figlia meglio di quanto potrebbe fare il più accorto dei notai e dispensa alcune delle massime wildiane poi diventate proverbiali (-‘Lei fuma” -‘Sì’. -‘Bene, sono convinta che ogni uomo dovrebbe avere un’occupazione nella vita’.) con verve e intelligenza. I suoi duetti ‘comici’ col nipote scapestrato Rupert Everett (in versione sportiva resta affascinante e canagliesco) sono molto riusciti, e Colin Firth è sussiegoso quanto basta nell’interpretare Jack Worthing, alla ricerca dei suoi natali e di un modo per impalmare la bella Gwendolyn Fairfax.

Le soluzioni di messinscena volutamente ‘false’ (il doppio tatuaggio, l’orchestrina Dixie capeggiata dal maggiordomo Lane, i sogni a occhi aperti a sfondo cavalleresco che fa Cecily, la gag dell’automobile guidata a passo d’uomo da Gwendolyn, l’arrivo di Algy in campagna a bordo di una mongolfiera) dimostrano che Oliver Parker conosce bene la materia che si è deciso a portare in scena. Mostra scopertamente che tutto è finzione e frutto della fertile fantasia di chi ha orchestrato la vicenda, ma resta fedele nello spirito all’ironia e alla voglia di stupire che era propria di Wilde e delle sue opere teatrali, laddove proprio il senso dell’ironia sembra aver fatto difetto a chi ha firmato le recensioni del film. Rimangono il fascino e l’assoluta godibilità di un divertissement che prende in giro l’ipocrisia eretta a sistema sociale, scritto nel 1890 da un personaggio che, pubblicamente, godeva ancora del favore della buona società ma che di lì a poco sarebbe stato vittima dell’ostracismo e incarcerato per aver rivelato qualcosa che nella morale dell’epoca poteva esistere ma solo a patto di restare nascosto e taciuto.

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