Il pianista
Una premessa. Da quando, ancora ragazzina, mi raccontarono “La moglie del soldato” (The Crying Game, 1992), ho una regola ferrea: andare al cinema sapendo il meno possibile del film che mi accingo a vedere. Possibilmente senza saperne nulla. Recensioni, articoli, special etc. li lascio per dopo la visione. Sono andata quindi a vedere “Il pianista” qualche settimana fa, quando quasi tutti l’avevano già visto, beandomi della mia ignoranza. E penso ne sia valsa la pena.
Non sapevo che il film fosse tratto da un libro, né che il libro fosse la testimonianza di quanto è veramente accaduto al pianista ebreo-polacco Wladyslaw Szpilman durante la seconda Guerra Mondiale. In questi giorni ho poi letto la rassegna stampa delle recensioni pubblicate in Italia solo alcuni anni fa (nel 1999, per la precisione), quando il romanzo “Il pianista” (dal titolo inglese, in originale si intitolava “Morte di una città”) venne tradotto nel nostro Paese. Colpisce come in tutte venga rilevato l’apparente distacco con cui i fatti vengono raccontati; la registrazione è precisa, lineare, non c’è retorica né odio. Non c’è desiderio di vendetta, solo la voglia di restare vivi, di superare il freddo, la fame, le malattie, la brutalità e l’assoluta mancanza di senso di una realtà sempre più simile a un girone dantesco.
Ho poi letto le dichiarazioni rilasciate da Roman Polanski allorché si accingeva a dirigere il film:
“Ci tengo a dire che questo film non sarà un’autobiografia. Sicuramente la mia triste esperienza […] mi permetterà di essere molto accurato. Ma io voglio raccontare la storia di Wladyslaw Szpilman, non la mia. […]Ho aspettato molto per fare un film sulla seconda guerra mondiale. Quando mi hanno proposto di realizzare “Schindler’s List”, non mi sono sentito proprio di trattare questo tema. Finalmente, quando è uscito il libro di Szpilman, ho trovato il materiale che stavo cercando. E’ un’opera bellissima, perché riesce a descrivere la tragedia con un grande senso dell’ottimismo. E’ raccontata tutta in prima persona, un particolare che rimarrà anche nel mio film”.
Ho pensato che Polanski ha tenuto fede alla parola. Noi assistiamo all’invasione di un Paese, al suo precipitare nella guerra, nella barbarie, nella lotta all’ultimo tozzo di pane, attraverso gli occhi di un uomo giovane, colto, di talento, che fino all’ultimo considererà impossibile una simile situazione. La cena lieta e abbondante che la famiglia Szpilman consuma, abbandonando i propositi di lasciare Varsavia, quando sente alla radio la notizia della dichiarazione di guerra dichiarata dall’Inghilterra alla Germania, rende bene l’idea. Non è concepibile che nel Ventesimo secolo un Paese civile e inerme venga attaccato e saccheggiato, e parte dei suoi abitanti ridotti in schiavitù, senza che il mondo reagisca. Invece è quello che accadrà, e Wladyslaw e la sua famiglia lo impareranno giorno dopo giorno, mano a mano che le restrizioni diventeranno sempre più soffocanti e cavillose. La figura del padre, di quest’uomo silenzioso e signorile che viene percosso per strada e si allontana ancora stordito e dolorante, è quella di un uomo normale (come lui per primo afferma prima di salire sul treno che lo porterà alla morte), non di un eroe. Un uomo che ha sempre vissuto in un Paese e se ne sente parte integrante, viva, pulsante. Un Paese che di colpo non lo difende e anzi lo aggredisce, e non capisce perché. Come risposta non basta, il fatto che non ci sia un perché.
Wladyslaw per primo si è sempre sentito prima polacco e solo dopo ebreo, come ha dichiarato lui stesso, e quando rischia di venire ucciso perché indossa il caldo cappotto che il capitano Wilm Hosenfeld gli ha donato, urla: “Sono polacco”, non “Sono ebreo”. È una cosa che mi ha molto colpita, non ho potuto fare a meno di notarla.
Polanski ha scelto di raccontare la seconda Guerra Mondiale meno vista, meno conosciuta, anche meno studiata. A differenza delle centinaia di migliaia di ebrei deportati nei lager e sfiancati dal lavoro o subito annientati nelle camere a gas dopo essere stati esaminati come animali avviati al macello, Wladyslaw resta nella sua città e sperimenta l’inattività forzata. Non deve fare rumore, non deve muoversi, non deve uscire di casa. Nessuno deve accorgersi della sua esistenza. Mentre tutti gli altri perdono la propria identità e diventano solo un numero tatuato su braccia scheletriche, lui si salva per la sua fama e continua a vivere grazie all’aiuto che riceve proprio grazie al fatto che il suo nome è stimato e rispettato. Anche l’odioso ebreo che lo “salva” per primo lo fa perché lui è un personaggio eccellente, qualcuno che si differenzia dalle famiglie ammassate nella tristemente famosa Umschlagplatz. Anche Wladyslaw sperimenta la fame, la malattia, rischia più volte di morire e diventa puro istinto di sopravvivenza, lui che era stato rimproverato dal fratello di essere assurdamente elegante con la sua cravatta, in mezzo alla claustrofobia forzata del ghetto.
L’episodio dove credo si noti con maggiore evidenza la grande fedeltà scelta e portata avanti da Polanski nella trasposizione dell’opera è la resa della famosissima insurrezione del ghetto di Varsavia. Non si vedono volti, non si conoscono progetti né altro: assistiamo insieme a Wladyslaw a uno dei pochissimi episodi di ribellione di civili contro i nazisti, e assistiamo da fuori, da quella finestra così vicina e insieme così lontana da una lotta sanguinosa e votata al fallimento eppure per questo tanto più necessaria. Solo due date scandiscono il miracolo di un mese di resistenza contro i soldati tedeschi: 19 aprile 1943-16 maggio 1943.
Wladyslaw non sa, non capisce cosa stia avvenendo intorno a lui, non ha notizie di battaglie o avvenimenti, e noi con lui: sa (e noi sappiamo) solo quello che vede, quello che gli viene raccontato, quello che deduce dalle poche informazioni in suo possesso. L’ho trovata una scelta molto intelligente, e ben riuscita. Rende l’idea della precarietà, della vita appesa a un filo o alla disponibilità degli altri, o al puro caso che ti fa trovare una scatola di verdure ma non l’apriscatole. La tragicomica ricerca di un modo di aprire “il tesoro” strappa un sorriso, in mezzo alla tragedia di una città devastata e messa in ginocchio. Neppure quando si trova davanti il capitano Hosenfeld Wladyslaw può abbandonare la sua scatola, continua a tenerla ben stretta e a portarla con sé.
Molti hanno trovato poco plausibile la bravura e la scioltezza con cui, dopo anni in cui non tocca un piano, Wladyslaw riesce a suonare per Hosenfeld il Notturno in C diesis minore di Chopin, lo stesso che ha suonato per l’ultima volta da uomo libero il 23 settembre 1939 (pochi anni prima, eppure sembrano secoli). Certo, non è plausibile che dopo anni di inattività, di fame, di stenti, di dolore e straniamento si possa eseguire un pezzo molto difficile con solo qualche esitazione iniziale. Eppure è una scena che ho trovato molto bella, perché dopo le prime note titubanti e incerte sembra che la musica torni a sgorgare con prepotenza dalle mani di un uomo che ha dovuto accantonare una delle sue ragioni di vita, la musica, appunto per continuare a sopravvivere. Mi ha fatto venire in mente Primo Levi che tenta spasmodicamente di non dimenticare i versi di Dante, perché sa che ha assoluto bisogno di qualcosa che lo tenga vivo, che lo faccia rimanere uomo. Szpilman è stato costretto al silenzio, ha dovuto soffocare la musica, e torno a ripetere che ho trovato la scena molto bella perché secondo me è riuscita a rendere l’enorme emozione (e anche il reverenziale timore) di Wladyslaw nel ritrovarsi seduto al piano dopo tanto tempo, dopo aver certo pensato che mai più avrebbe potuto farlo, e sapendo che dalla sua esecuzione probabilmente dipende la sua stessa vita. La famiglia e la donna fuggevolmente amata sono spariti, lontani, scomparsi, resta solo la musica.
Azzurra Camoglio
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