A beautiful mind
Il cinema sembra riservare una particolare attenzione ai disadattati negli ultimi tempi (“Ti voglio bene Eugenio”, “Mi chiamo Sam”, “The dancer” etc.) e ha sempre dato un particolare risalto al personaggio del “genio-folle”: con “Shine”, storia del musicista David Helfgott, “Un angelo alla mia tavola”, basato sulla vita di una scrittrice schizofrenica rinchiusa in un manicomio, o con “Frances”, il racconto dell’attrice Frances Farmer, lobotomizzata a seguito della sua malattia.
Non sorprende quindi che Ron Howard (Edtv, Apollo 13, The Grinch) abbia scelto di portare sullo schermo la storia di John Forbes Nash, genio matematico, premio Nobel nel 1994 e schizofrenico. La pellicola presenta una sceneggiatura, di Akiva Goldsman (Batman&Robin e Batman Forever), troppo simile a un romanzo d’appendice; ma rivela due grandi attori: Russel Crowe (perfetto per rappresentare il matematico in tutta la sua vita e in tutte le sue manie ossessive) e Jennifer Connelly nel ruolo di una moglie ribelle, devota e coraggiosa, che combatte ogni giorno al fianco del marito.
Il film comincia con Nash a Princeton, nel 1947. È uno studente solitario, incapace di instaurare rapporti con qualsiasi altro essere umano, fuorché con il suo strano compagno di stanza Charles. Nash è in questi anni alla costante ricerca di “un’idea originale”, di qualcosa di innovativo che possa lasciare il segno nel mondo della matematica. Questa teoria si fa pian piano strada nella sua mente fino alla folgorazione finale: è la “Teoria dai Giochi”, ancora oggi applicata in molti campi, dall’economia alla strategia militare.
L’intuizione gli offre la possibilità di collaborare con il MIT, in qualità di ricercatore ed allo stesso tempo di entrare a contatto con il Dipartimento della difesa, che lo convoca al Pentagono per decodificare un codice segreto elaborato dai sovietici. È normale: sono gli anni della “Red Scare”, l’America è dominata dal Maccartismo, ma sono anche anni apparentemente felici per Nash e pe la moglie Alicia (la Connelly).
Anni di felicità che durano poco. La vita di Nash precipita nella confusione più assoluta. Tutto ciò che per lui è reale e vivo, agli occhi della moglie e dei medici è pura invenzione, il frutto di una fantasia malata. A seguito delle sue allucinazioni e delle sue paranoie Nash subisce le peggiori umiliazioni di un ospedale psichiatrico (isolamenti, elettroshock).
Costretto a combattere per anni contro la sua stessa mente, stupenda (come dice il titolo) così vicina alle verità matematiche più assolute, ma allo stesso tempo terribile e lontana dalla realtà, Nash è interpretato in maniera particolarmente toccante da Russel Crowe. È un “lottatore” che accetta continuamente le sfide del mondo ma che finisce sempre per perdere; è un matto, un eccentrico, lo “scemo del villaggio” che vince la “sua” sfida e che finisce in gloria (e che gloria!).
Un’interpretazione che già sa di Oscar, come anche quella della Connelly e di Ed Harris, perfetto nel ruolo dell’agente-fantasma. L’unico punto debole del film è la sceneggiatura esageratamente melensa, da soap-opera. Parte da una storia vera per poi aggiungerci “di tutto, di più” e diventare palesemente una montatura cinematografica… che anche Ron Howard e il suo sceneggiatore stessero cercando la loro “idea originale”? Peccato, dalla storia di Nash hanno imparato ben poco: per la Hollywood di oggi la vera originalità sarebbe soltanto una storia semplice.