BARTON FINK

Ethan Coen, produttore e co-sceneggiatore di BARTON FINK, l’ha definito un “buddy-movie”, ma la pellicola è molto, molto di più: un complesso gioco di scatole cinesi, di immagini e storie che si incrociano ed intersecano in perfetta sincronia.

È una pungente satira della Hollywood anni ’40, che autocelebra il successo dei suoi B-movies dagli incassi inimmaginabili. É uno studio della personalità di un artista, delle sue angosce che si sviluppano davanti ad una pagina bianca, dei meccanismi legati all’ispirazione, del terrore del “creatore” davanti alla sterilità della propria mente. Ed infine è una sorta di allegorico film dell’orrore, ricco di richiami a pellicole precedenti (i corridoi dell’hotel deserti, proprio come in Shining) e di inspiegabili simbologie.

BARTON FINK è zeppo di piccoli tranelli, d’indovinelli (quasi fosse partorito dalla mente del Riddler di Batman!), di domande senza una risposta che lo spettatore si pone fino all’ultima inquadratura. Ma BARTON FINK non è un film noir… per questo il mistero non viene mai svelato.

È un film speculare, che viaggia sulla rotta del dualismo: i personaggi principali, Barton e Charlie sono l’opposto l’uno dell’altro: magro e piccoletto il primo, grosso ed elefantesco l’altro; uno silenzioso e riflessivo, l’altro loquace, quasi logorroico.

Allo stesso modo viaggiano in parallelo le emozioni: empatia e comprensione contro la pietà ed il disgusto (lo squallido hotel, gli insetti che lo popolano, la carta da parati che si distacca per il caldo), la vita del corpo (e la sua fine) contro la vita della mente che Charlie va urlando per i corridoi infuocati, il sesso e la violenza. La storia è distorta, ma molto semplice: Barton Fink è un famoso commediografo di Broadway che, per pagare qualche conto, accetta di scrivere la sceneggiatura per un film di wrestling ad Hollywood, infrangendo ogni suo proposito di scrivere solo “qualcosa di veramente bello”.

La vita ad Hollywood però è più difficile di quel che sembra. Il caldo, l’afa, le zanzare, i vicini di stanza non danno tregua allo scrittore, che cade inevitabilmente in una crisi creativa che sembra non avere fine. Pressato dai produttori, Fink trova l’unico sfogo nelle sue chiacchierate con Charlie (un assicuratore logorroico, che si rivelerà ben presto un sanguinario serial killer) e con lo scrittore alcolizzato Bill Mayhew e la sua affascinante segretaria.

La crisi di Barton è spiegata dai Coen attraverso la metafora del foglio bianco nella macchina da scrivere e dai “classici” fogli appallottolati e gettati ovunque nella stanza. Fink è imprigionato nella sua mente come nella sua stanza, davanti a quei tasti che non sanno comporre nemmeno una parola, e davanti al quadro di una donna che (come il commediografo) sembra cercare ispirazione nell’infinito del cielo e dell’oceano.

I fratelli Coen hanno giocato con le immagini, con le metafore, con mille dettagli che sfuggono all’occhio distratto, ma danno allo spettatore molto di cui divertirsi. BARTON FINK ha davvero quel “tocco alla Barton Fink” che Hollywood vuole e ad ogni visione diventa tanto più divertente ed intrigante da meritarsi un’unica etichetta: quella di film CULT.

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