VIAGGIO A KANDAHAR

Nafas, giornalista nata in Afghanistan ma trasferitasi sin da piccola in Canada, torna nella sua terra martoriata per cercare di riabbracciare la sorella che non vede da anni e che le ha manifestato in una lettera l’intenzione di togliersi la vita durante l’eclissi solare dell’11 agosto 1999, stanca di continuare a vivere nell’inumana condizione di indigenza, di assoluta ignoranza e di completa prostrazione che il regime dei talebani prevede per le donne. Durante il suo viaggio verso Kandahar, la giornalista potrà toccare con mano e vedere con i propri occhi la violenza, la spietata volontà di sopraffazione fisica e psicologica, il clima di terrore che serpeggia incontrastato nel suo paese, quasi inavvertitamente alleviato dai risibili mezzi, chiamati pomposamente “Aiuti Umanitari”, che piovono paracadutati dal cielo sotto forma di atroci gambe artificiali.

Si potrebbe amaramente definire l’ultima opera di Mohsen Makhmalbaf come il film giusto al momento giusto, e potremmo chiederci in che condizioni sarà l’Afghanistan quando un’altra macchina da presa andrà a posare il proprio obiettivo tra quei deserti sconfinati. Di fronte all’attualità sconcertante che scaturisce dalle immagini create dal maggiore regista iraniano (insieme a Kiarostami), il giudizio critico passa ovviamente in secondo piano e chi scrive deve immaginare di aver visto il film un anno prima, deve decontestualizzarlo e detemporalizzarlo (sempre che questo abbia un senso) per accorgersi dei suoi pregi figurativi che diventano anche i suoi limiti: quei burka splendidamente colorati, ripresi mentre sullo sfondo si staglia il giallo uniforme del paesaggio, sembrano provenire da uno spot della Benetton (United Colors), mentre quei dialoghi tra i vari personaggi, ripetuti, sottolineati ossessivamente, hanno il piglio fastidioso del più didascalico tra i documentari. E poi ci sono anche momenti magnifici e terribili, anzi magnifici perché terribili, in cui il regista azzecca finalmente il tono giusto, quello del sarcasmo spietato che caratterizza per esempio la sequenza nel campo della Croce Rossa, in cui decine di disperati senza più le gambe, aspettano che piova dal cielo un arto della loro misura, così che possano indossarlo e tornare, rassegnati, al loro massacrante lavoro.

Makhmalbaf indugia ancora (come nel precedente Il Silenzio) nella calligrafia, è lontano dagli esiti delle sue pellicole migliori (Pane e Fiore, Il Ciclista), ma il suo film è di quelli da vedere con urgenza.

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