LUNA ROSSA
L’ultimo rampollo di una famiglia di camorristi, i Cammararo, racconta le tragiche vicende dei suoi consanguinei, proiettati dall’altare alla polvere in pochi anni, vittime di un Destino spietato e sanguinario, di faide cruente, di tradimenti incrociati, di incesti e colpe ancestrali.
Capuano contamina il film di mafia con influenze che derivano direttamente dalle tragedie eschilee (non a caso il giovane protagonista si chiama Oreste) e giunge ad un risultato imperfetto ma di indubbio interesse. Al contrario di Abel Ferrara (che in Fratelli aveva operato la medesima fusione tra il mafia movie e certe impennate da Tragedia greca), il regista partenopeo sposa un’ottica spudoratamente antinaturalistica (si vedano ad esempio le scenografie, espressione di un kitch agghiacciante) avvicinandosi ad uno stile espressionista che lascia il segno. La grammatica cinematografica è libera e sgrammaticata come quella di un Pasolini ruspante, e il film appare sanguigno, vigoroso, pieno di vita anche se mostra ineluttabilmente e ripetutamente la morte. Forse si può rimproverare al regista un certo compiacimento nel raccontare vicende tanto sordide e malsane, probabilmente il film soffre di qualche lungaggine e il ritmo, specie nella seconda parte, ne risente un po’, ma Luna Rossa è un’opera di nerbo, lontanissima dal piattume televisivo, e che riconcilia con il Cinema.
Un capitolo a parte meriterebbero poi gli attori: da Licia Maglietta a Toni Servillo, da Antonio Iuorio a Carlo Cecchi, via via fino a comprendere tutti gli altri, sono semplicemente strepitosi, da standing ovation.