BRUCIO NEL VENTO

Tobias, un uomo proveniente da un non meglio precisato paese dell’est europeo, lavora in Svizzera come operaio in una fabbrica di orologi. La sua vita si trascina sempre uguale, tra cene con altri immigrati come lui e notti di sesso trascorse con donne senza nessuna importanza. L’incontro con una sua collega, Line, lo costringerà a fare i conti con il suo oscuro passato e a lottare per assicurarsi un futuro.

Dopo il successo ottenuto con la sua opera senza dubbio più solare (“Pane e Tulipani”), Soldini torna alle atmosfere rarefatte e malinconiche che da sempre contraddistinguono il suo cinema, anche se in questo caso offre allo spettatore (e a se stesso) un lieto fine curiosamente tirato via che è anche la cosa meno riuscita del film, e che ha deluso infatti anche Marco Lodoli, il traduttore italiano del romanzo di Agota Kristof “Ieri” da cui è tratto “Brucio nel vento”.

Imperfetto (specie nel ricorso ad una voce off troppo invadente e “poetica”) ma emozionante il film, nei suoi momenti migliori, pare bruciare della stessa ansia di cui si nutrono i suoi commoventi protagonisti (Ivan Franĕk e Barbara Lukesŏvà), lui sconsolatamente precario e parziale come il lavoro che lo imprigiona (“Io monto solo dei pezzi, ma non riuscirei mai a costruire un orologio tutto intero”), lei divisa tra l’equilibrio di una vita banale e l’amore ossessionante di un uomo che equilibrato sicuramente non è.

Bruciano gli occhi di tutti i personaggi, umanità sradicata e calata a forza in una Svizzera resa impietosamente livida dalla cupa e straordinaria fotografia di Luca Bigazzi, come bruciano gli occhi degli spettatori colpiti dalle improvvise dissolvenze in un bianco tanto abbagliante da apparire come una porta metaforicamente aperta ad una speranza tutto sommato immotivata, e offerta quasi come una concessione ai due amanti da un regista che, almeno per questa volta, non ha proprio cuore di negargliela.

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