MULHOLLAND DRIVE
Una donna perde la memoria in seguito ad un terribile incidente automobilistico e si intrufola in un appartamento sconosciuto. Una ragazza di provincia arriva a Los Angeles con il sogno di diventare attrice, incontra la donna che ha perso la memoria e decide di aiutarla. Un uomo è perseguitato da un’immagine mostruosa che gli appare in un sogno ambientato in un fast food. Un regista è minacciato dalla mafia e costretto a scegliere una bionda sconosciuta come attrice principale per il suo film. Personaggi minacciosi parlano al telefono chiusi in stanze illuminate da luci rosse. Cosa sta succedendo a L.A.?
Torna il Lynch misterioso e incomprensibile di “Twin Peaks” e di “Strade Perdute”, e dirige quello che, in origine, avrebbe dovuto essere l’episodio pilota di una serie tv mai andata in onda. Dimenticata la meravigliosa parentesi intimista di “Straight Story” (un capolavoro), il regista torna alle sue ossessioni e partorisce un’opera masturbatoria, manierista e fondamentalmente cinica nei confronti dello spettatore, al quale offre una serie di aspettative per poi lasciarle cadere una dopo l’altra, rinchiudendosi in un mondo personale la cui unica regola è il non sense e in cui le comuni leggi spazio-temporali sembrano definitivamente scardinate.
Un’opera controversa, visivamente elettrizzante (la fotografia è di Peter Deming), che mantiene una notevole intensità per tutta la sua durata (due ore e mezza non sono uno scherzo) ma che, una volta finita, lascia allo spettatore la sgradevole sensazione di essere stato vagamente preso per il culo.
Rimane il rimpianto per quello che avrebbe potuto essere il serial tv e che invece non sarà mai (personalmente ritengo che “Twin Peaks” sia una delle cose più belle mai trasmesse in televisione), ma resta anche il timore che questo grandissimo artista abbia ormai poco da dire e che continui a raschiare il fondo del barile della sua (un tempo) fertile immaginazione propinando deliri personali anche affascinanti ma, ahimè, sin troppo sterili.